Le case della vita – La casa di Via Romagnosi

di Maria Letizia Casciani

“LA MAGLIETTA A RIGHE ROSSE”

Me ne stavo lì, seduta sul molo a guardare la maglietta a righe rosse e bianche. Fissavo un punto, in mezzo alla pancia.
Era da poco iniziata l’estate del 1985 e la mia vita aveva avuto un’accelerazione del tutto imprevista. Ero scesa da circa cinque minuti dalla barca a vela, dopo una lunga gita verso le due isole del lago, sotto il sole di luglio, guardavo il tramonto, ma non mi dava gioia, non percepivo poesia intorno a me.
Da qualche giorno avevo avuto la certezza di aspettare un bambino ed interrogavo spesso quel punto al centro della mia pancia, come se fosse già in grado di ascoltarmi.
In quelle settimane ero stata molto impegnata con il trasloco nella nuova casa di via Romagnosi, una casa bellissima, nella quale, fino a qualche settimana prima, avevano abitato i miei suoceri, che avevano deciso di trasferirsi nella villetta di campagna e di lasciare a noi quella meraviglia, situata all’ultimo piano di una palazzina arrampicata sulla collina da cui si dominava tutta la città.
In certi momenti della giornata, affacciandosi dal balcone della cucina, si poteva vedere la striscia dorata del sole sul mare dell’Argentario, che pure si trovava a più di quaranta chilometri di distanza in linea d’aria.
Ci eravamo trasferiti da poco in quella enorme mansarda, che avrebbe potuto ospitare comodamente non solo noi due ed il figlio che stava arrivando, ma anche una piccola squadra di calcio, se solo avessimo deciso di assumerci da soli la responsabilità di rimpinguare l’intera popolazione italica.
Seduta sul molo guardavo la mia pancia, sotto quelle righe rosse della maglietta e programmavo il futuro, percependo in me un senso di inquietudine e cercando di capire quale potesse essere la scelta migliore da fare.
Sotto la pressione dei nostri genitori, io e l’Uomo coi baffi avevamo accettato di sposarci a metà settembre e nella mia testa si agitavano come dentro un frullatore acceso tutte le cose ancora da fare.
Sarebbe stato un matrimonio semplice, in Comune, con pochissimi invitati, solo i parenti più stretti ed i testimoni; nonostante questo, c’erano da organizzare la cerimonia, il pranzo, il viaggio di nozze.
Non riuscivo a capire bene quali fossero i sentimenti che mi animavano: la confusione la faceva da padrona. Sotto quelle righe rosse si agitava, oltre ad un bambino in arrivo, anche una grande incertezza. E una tristezza di fondo.
Avrei dovuto essere felice: l’Uomo coi baffi si era finalmente rassegnato a prendere un impegno con me, a sposarmi, addirittura, lui che aveva imposto quelle regole assurde al nostro rapporto; sembrava anche contento di questo figlio in arrivo – che pure non aveva programmato, né desiderato.
Eppure non mi sentivo felice: provavo la stessa sensazione di precarietà di quelli seduti per caso su uno strapuntino.
Forse a dare forza a quella sensazione era la consapevolezza di non essere stata scelta fino in fondo come moglie, di essere sul punto di diventarlo solo perché sotto quella maglietta rossa si stava muovendo qualcosa che avrebbe richiesto l’impegno e l’attenzione di entrambi.
Distolsi l’attenzione da quei pensieri negativi ed iniziai a riflettere sulle mille cose da fare.
In primo luogo avremmo dovuto finire di mettere in ordine quella nuova casa: cercare gli ultimi mobili, preparare la stanza del bambino. Poi, con l’aiuto di mia suocera, avrei dovuto occuparmi di organizzare tutta la cerimonia.
Stavo mettendo in queste cose molte delle mie energie, a volte stancandomi senza motivo. Non prestavo molta attenzione alla mia stanchezza, ai segnali che il corpo mi inviava. A ventiquattro anni ci si sente terribilmente immortali ed in grado, se non in dovere, di dettare le regole alla vita.
In fondo ero solo in attesa di un bambino, no? Non si trattava di una malattia tale da impedire lo svolgimento della vita, mi dicevo, ogni volta in cui la stanchezza faceva capolino.

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