“Laura racconta”: La notte di San Clemente

di Laura Sega Marchesini*

LA NOTTE DI SAN CLEMENTE

Landa rimaneva incinta ad ogni breve licenza che strappava Mario alla guerra. Il giovane, coriaceo e nerboruto, era un “ragazzo del ’99” e un’impietosa sorte stava sottraendogli la giovinezza.

Il fisico appariva robusto ma tradiva l’andatura delle compassate fatiche e i lineamenti crudi, consacrati al volto come vessillo di precoce maturità, si mescolavano al salnitro trasudante dai muri bui della piccola casa color pomice ricavata nella pietra, dove dimorava con Landa e i tre pargoletti le cui altezze non raggiungevano il metro.

Le vite umide e silenziose si narravano e si tramandavano raccolte nel vortice ripetitivo della danza ancestrale delle albe e dei tramonti, tra puzzolenti barche fradice, grigie corde gonfie d’acqua e remi scoloriti impigliati nella melma grovigliosa della riva solitaria e desolata.

E risalivano, gli odori, rampicando dal fondo del letto cangiante del lago blu e penetravano potenti fin dentro le narici violacee, che il freddo di novembre cristallizzava fulmineo ed eterno nei polmoni e nell’anima.

Una tempra antica possedeva le membra, testimoni del tempo e della storia scavata rovente nella carne. Ed era così che i volti della gente, distesi nella verde prateria della dignità, sublimavano la durezza e l’intensità dei profondi tratti. S’offriva malinconico e spietato quel paesino di lago che gli echi sguaiati di donne pesanti asciugavano cantando, quando le schiene curve e i grossi polsi profanavano il lavatoio di pietra muffa dipingendo nella memoria delle sue crepe le sembianze del sacrificio umano.

Landa e le altre donne scandivano le proprie esistenze tra faticosi mestieri domestici ed impreviste e logoranti gravidanze attraverso cui si immolavano a un Cristo che avrebbero invocato per sempre affinché l’eucarestia purificasse le loro semplici umanità nell’espiazione della colpa di non aver saputo e potuto desiderare di più.

Il prezzo della redenzione aveva il volto di nuove bocche da sfamare e rituali esoterici cui affidare il destino. Impacchi e miscugli accompagnavano le martellanti preghiere pagane mentre i crocifissi sanguinavano d’ingenuità e di speranze affogate nel mare sortilegio di misteriose stregonerie disperse nelle macabre superstizioni di spregiudicate vecchie mammane.

Mario, come anche le altre tre volte, era al fronte quando Landa partoriva il piccolo Giorgetto. La notizia gli arrivò avvolta in una furtiva lettera corsiva scritta con elegante stile antico e brillante inchiostro blu. Landa l’aveva pagata una lira al figlio del fattore. L’inverno ormai profondamente immerso nelle gelide acque dolci lacustri restituiva lunghi spasmi e ossessivi brividi che dalle braccia raggiungevano il petto.

Le mani delle donne, rigonfie e paonazze, tenevano giunte le estremità frastagliate delle ampie mantelle a frange larghe di lana fitta accoppiata e lavorata al dritto che avvolgevano più d’una volta intorno alle spalle ricurve, paladine colonne del busto richiuso nella timida illusione d’un caldo abbraccio.

Quella sera nevicò, quando le donne con insistenza stregonesca convinsero Landa a seguirle alla messa vespertina per la vigilia della festa di San Clemente. Landa avvertì uno strappo antico e fatale alla propria volontà che, tuttavia, fu sottomessa alla malvagità delle convenzioni e alla violenza fonda e arcaica della ritualità. Il vento proveniente da nord, messaggero di oscuri presagi, si trasformò in milioni d’aghi pungenti.

Le chiazze bianche e rosse sul viso di Landa si fecero innocenti concubine di un’insana tentazione espiatoria che la sedussero e l’abbandonarono alla liturgica e funesta ipnosi collettiva. Strinse a sé Giorgetto dentro alla copertina azzurra inamidata in un delicato merletto bianco che aveva ricamato al tombolo e s’incamminò.

La via sterrata che dal lago risaliva verso il monte si faceva man mano più impervia e minacciosa sotto le scarpe di lana cotta e feltro scuro. Il freddo tagliato e trafitto con precisione cristallina nelle vene disegnava con macabra disinvoltura la coreografia diabolica di quel viaggio mentre Landa non si rendeva conto che Giorgetto era già febbricitante. Durante la notte il piccolo si aggravò rapidamente.

La polmonite s’impossessò del suo debole respiro e strappò le grida disperate di Landa al silenzio lasciandola nella lacerazione più feroce ed in un inconsolabile martirio. Mario, nell’eccezionalità dell’evento della nascita del figlioletto, era riuscito, nel frattempo, ad ottenere un piccolo permesso speciale dal comandante di brigata.

Sperò che le rotaie sotto le nuvole di vapore bianco dell’accelerato 1015 lo conducessero lontano dalle armi, ma non l’abbandonarono i rumori e gli umori del campo e dei cannoni. L’udito ormai corrotto rimandava ossessivo l’eco ovattata dei dolori che la vista proiettava nelle immagini abbaglianti ed improvvise ferendogli gli occhi in fuga ad ogni battito di ciglia.

Ad accoglierlo furono le donne intorno a Landa che non gli diedero modo di fare domande sul piccolo e, con perentorietà consolatoria e arcigna, fermi occhi bassi e fatalista crudeltà lo anticiparono: “Giorgetto è morto, è stata una stregoneria”, dissero. Landa, sfinita sulla poltrona di paglia, pietrificata nel dolore ed accasciata senza forza sulla sua vesta nera a lutto, senza sollevare il pavimento dalla pesantezza del suo stesso marmoreo sguardo assente sibilò con definitiva rassegnazione: «La strega sono io».

 

*Laura Sega Marchesini, laureata in Economia, è scrittrice di racconti, saggi e articoli su riviste cartacee e quotidiani online. E’ cantante, cultrice di musica e tiene concerti come voce solista.

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