La Tuscia nel Cuore: “La tragica battaglia del pastificio, in Somalia, è troppo spesso dimenticata dai media”

“Tragedia” è una parola estremamente antica, ancestrale quasi, che trova le proprie origini dal greco tragōdía, letteralmente “canto dei capri”: si attinge quindi a piene mani alla tradizione satiresca e dionisiaca.
Più recente, seppur con radici altrettanto profonde, è l’espressione “onore” dal latino “honor”, tanto fumosa nella sua descrizione quanto concreta nel suo significato.
Due vocaboli che spesso nel teatro greco-romano si incontrano, si intrecciano e danzano l’una con l’altro magistralmente rappresentati dalle maschere per il diletto e la catarsi del pubblico.
Tuttavia, quando questi due concetti si mescolano al di fuori del palco ne nascono momenti terribili in cui le storie di chi li ha vissuti gelano il sangue, attimi in cui le Morie, divinità greche custodi del fato di ogni essere, recidono destini mentre ne intrecciano indissolubilmente altri.
Il 2 luglio 1993, Mogadiscio, Somalia, sono la data e il luogo in cui questo infausto incontro è avvenuto: la battaglia del pastificio.
A ormai 30 anni da quel tragico evento, sabato 1° luglio presso la sala Alessandro IV della diocesi di Viterbo si è tenuta una conferenza per raccontare e ricordare i fatti di quel giorno attraverso le parole di chi, in quelle ore, ne fu protagonista.
Data inizialmente dal relatore, dottor Luigi Vinci, una rapida panoramica degli eventi storici che portarono al caos la regione somala e alla successiva risoluzione Onu dopo il cui fallimento nacque l’operazione “Ibis” si passa velocemente alle prime, crude, testimonianze, aperte sentitamente dal luogotenente Giampiero Monti che immediatamente presenta, a dovuto onore e memoria, la lista completa di tutti i 29 feriti e uccisi in quello scontro.
Persone con un grado, un nome e un cognome, troppo spesso dimenticati dai media tradizionali.
Vari gli ospiti che hanno preso la parola toccando, ognuno per il proprio ambito di competenza, i più disparati aspetti come l’inadeguatezza dei mezzi e degli equipaggiamenti oltre ad una mancanza di addestramento per un contesto di guerra asimmetrica esposta dal Tenente Colonnello Fabio Filomeni, la mancanza di addestramento congiunto tra diverse specialità per un migliore coordinamento sottolineato dal Generale di Brigata Alessandro Scano o, ancora, la durezza delle parole del luogotenente Stefano Ruaro, allora membro del 9° Reggimento d’asassalto “Col Moschin”, che non riesce e non vuole nascondere la rabbia nei confronti di chi, quel giorno, ha mancato nell’esecuzione del proprio dovere.
Tuttavia, due oratori sono particolarmente degni di nota: il Generale di Divisione Paolo Riccò e l’ex Caporale paracadutista Massimiliano Zaniolo.
L’intervento del Generale, totalmente fuori programma, è risultato infatti essere terribilmente coinvolgente proiettando la platea, incantata dalle parole dell’ufficiale, direttamente nelle strade circostanti il pastificio: al fianco della dell’allora capitano mentre soggetto al tiro dei cecchini oppure in vista del secondo carro salvatosi dal lancio di razzi nemici a causa dell’ inceppamento della propria arma di bordo.
Il Generale ha infine concluso sottolineando la necessità e l’importanza di riconoscere i propri errori e di metterli a disposizione delle future generazioni in un processo virtuoso di “lessonlearn”.
Più personale e toccante, invece, il racconto del Caporale paracadutista Zaniolo.
La storia di un ragazzo di appena 19 anni che si è arruolato per amore della patria e per i valori che esso rappresentava e che è rimasto stupito oltre che sconvolto dalla crudezza di quei giorni e dall’onore di quegli uomini che fecero di tutto per salvare i propri fratelli in armi.
Un discorso sincero, sentito, toccante e spezzato dall’emozione dell’ex paracadutista e dalla battuta, tanto ingenua quanto semplicemente rincuorante, della figlia di Zaniolo: un aiuto al papà in difficoltà.
Un racconto teso a sottolineare la fragilità della vita, la necessità di apprezzare le piccole cose e l’immancabile pensiero per chi a casa ci attende e ci supporta.
Chiude infine la conferenza la lucida analisi dell’attuale situazione di politica estera e delle odierne condizioni dell’Esercito Italiano del professor Francesco Fagnani da cui emerge come tuttora sia presente la mancata adeguatezza dei mezzi e del sistema di gestionee di arruolamento dei militari.
Il punto è che un avvenimento, per essere ricordato, necessita non solo, e non tanto, di essere semplicemente conservato – con le odierne tecnologie non c’è alcun limite alla quantità di informazioni e tracce che possono essere immagazzinate e archiviate, ma questa possibilità, appare piuttosto come un ostacolo alla costruzione di memorie “viventi” – quanto di essere trasmesso attraverso azioni volontarie, cioè intenzionalmente volte a edificare e strutturare una memoria. Ma, per svariate ragioni, non sempre questo avviene; o, perlomeno, non con la forza dovuta, non con l’intensità e la ripetitività necessarie.
Nell’analizzare gli oggetti del ricordo, gli artefatti della memoria, le pratiche sociali della
commemorazione – insomma tutti quei simboli e quelle attività che possono favorire o, al contrario, se assenti o insufficienti, ostacolare la presenza del passato – sono molteplici le domande che questa ricerca pone e alle quali tenta di fornire delle risposte: che cosa dobbiamo intendere per memoria collettiva, memoria sociale, memoria storica, ecc.?
Quali sono i processi sociali che sottendono la costruzione di una memoria collettiva? Cosa lega memoria e identità? Perché il passato è individualmente e socialmente così determinante per il presente? Qual è il ruolo dell’oblio? E, nello specifico del caso in esame: perché e come si commemora una strage? Esiste un “dovere della memoria”? E a chi spetterebbe: agli individui, ai gruppi, a tutto il tessuto sociale interessato da una particolare vicenda, alle istituzioni? E ancora: poiché per chi non è stato testimone diretto di un determinato evento il passato parla unicamente attraverso quegli artefatti culturali che gli individui e i gruppi producono, quanto e in che modo influisce la forma culturale nella quale si cristallizza una memoria sull’attività del ricordare?
Queste sono le diverse domande che sono emerse analizzando gli interventi profondi e sentiti di coloro che si sono messi a nudo nel raccontare ed analizzare gli eventi vissuti, con una compostezza e una lucidità narrativa commovente.
Una relazione piena quindi, avvolgente, emozionante e solenne quella che si è tenuta nella città di Viterbo che invitiamo, sentitamente, a recuperare sulla pagina Facebook de “La Tuscia nel Cuore”, perché tutti devono sapere la drammaticità di quel giorno, tutti devono ricordare il coraggio di quei militari a cui possiamo solo dire: Folgore!
Un ringraziamento speciale all’Hosteria dal Sor Bruno, il B&B Viterbino di Gianmarco Merlani e il B&B la Casa a Colori per aver reso possibile, attraverso i loro servizi, l’affluenza dei reduci da ogni parte d’Italia.

battagliapastificio
Associazione La Tuscia nel Cuore

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