Irene Belfi dalla Tuscia a Milano, una galleria dedicata al gioiello d’autore dove le diverse culture s’incontrano

Sara Grassotti

Ventisei anni e, prima di tutto, una profonda passione per l’arte quella di Irene Belfi, coltivata attraverso un percorso di studi iniziato con il liceo artistico a Viterbo e proseguito alla Facoltà di Biologia, a Siena, una scelta dettata più dall’esigenza di ampliare i propri confini che da un effettivo interesse per la materia. Poi, Milano, Firenze e numerosi viaggi in giro per il mondo, in particolare in Giappone e in Olanda, dove ha lavorato in una delle gallerie più importanti nel settore. “A 17 anni sentivo solo l’urgenza di andare via da Civita Castellana, dove sono nata  – racconta Irene –. Paese bello e tranquillo… ma in adolescenza la tranquillità coincide con la noia. E quindi, senza avere ancora bene le idee chiare, mi sono iscritta a Biologia a Siena. Ma non ho impiegato molto tempo a capire che la mia strada era un’altra. Così ho fatto le valigie e mi sono trasferita a Milano, dove mi si è letteralmente spalancato un mondo”. E proprio a Milano ha scoperto il gioiello contemporaneo come forma d’arte e aperto una galleria, grazie a quel piglio imprenditoriale ereditato dalla mamma. La Irene Belfi Gallery è stata inaugurata lo scorso 13 aprile nel quartiere milanese di Porta Venezia, uno spazio che punta a valorizzare i nuovi talenti provenienti da ogni spicchio di mondo. Proviamo a farcelo raccontare…

 

Milano e la Nuova Accademia di Belle Arti, quanto hanno inciso nel suo percorso?
Totalmente. A Milano si respira un’aria europea, è una metropoli piena di tutto: gallerie, locali, situazioni e coincidenze stimolanti che ti permettono di evolvere umanamente. E’ proprio grazie a questa città che sono riuscita a scoprire il mondo del gioiello contemporaneo.

 

Un settore che in Italia rimane ancora piuttosto di nicchia…
Per il momento sì, anche se inizia a nascere un discreto interesse per il gioiello contemporaneo. Nel nostro Paese non abbiamo una vera e propria tradizione in questo ambito, c’è una ottima scuola a Firenze l’Alchimia Jewellery School, che ha un approccio estremamente contemporaneo e richiama studenti da tutto il mondo, ma è una delle poche in Italia. In Germania e in Olanda invece, il gioiello come vera e propria forma d’arte contemporanea comincia a svilupparsi già negli anni ’50 e ’60. Non è semplice far capire il valore aggiunto di un’opera concettuale, applicata a oggetti come bracciali, anelli, orecchini, a cui di solito si dà solo un valore meramente commerciale. Lo scorso anno, infatti, sono stata per 4 mesi in Olanda e per 4 in Giappone per acquisire maggiori conoscenze, due esperienze fondamentali per strutturare e realizzare il progetto di aprire una galleria in Italia.

Un sogno che si è concretizzato con l’apertura della Irene Belfi Gallery…
Dopo un anno trascorso in giro per il mondo, non vedevo l’ora di rientrare in Italia… Milano è il giusto compromesso tra le mie radici e il mio sguardo internazionale. E Porta Venezia è il luogo ideale per aprire una galleria d’arte contemporanea, perché è uno dei quartieri più eclettici della città, pieno di antiquari, gallerie d’arte contemporanea e palazzi eleganti.

 

Quanto ha impiegato a dare forma al progetto?
Ci lavoro a tempo pieno da settembre. Subito dopo aver individuato lo spazio adatto, ho contattato Quintus Kropholler, rinominato interior designer olandese, per riadattare la galleria e renderla completamente funzionale alle esposizioni. Dopodiché è iniziata la ricerca degli artisti a cui proporre di sposare il mio progetto, che punta a valorizzare e diffondere a un pubblico, mi auguro sempre più vasto, la forza dei lavori di artisti che altrimenti farebbero non poca fatica a comunicare il loro messaggio. Ecco, il mio ruolo vuole essere proprio quello dell’intermediario tra l’artista e il potenziale acquirente delle sue creazioni, nell’accezione più pura della figura del gallerista.

Per l’inaugurazione, la Irene Belfi Gallery ha ospitato una collettiva di 7 giovani  artisti internazionali. Come è riuscita a coinvolgerli?
Credo di aver ereditato il carisma da mia mamma, Maria Serena, da cui ho anche preso l’empatia necessaria per stabilire subito il giusto feeling con chi ti è di fronte. Così, ho semplicemente spiegato loro il mio progetto e, nonostante fino a pochi mesi fa fosse poco più di un bel sogno, si sono fidati… E poi c’è da dire che l’Italia è sempre un ottimo biglietto da visita!

E’ già riuscita a vendere qualche opera durante questi primi giorni di attività?
Per fortuna sì. L’inaugurazione è andata benissimo: sono venute davvero molte persone e sono riuscita a vendere alcune opere di Benedikt Fischer e di Akiko  Kurihara. Un risultato  al di sopra delle aspettative, che mi dà la conferma che il gioiello contemporaneo può avere un suo mercato anche qui in Italia.

Ha mai pensato di organizzare un evento dedicato al gioiello d’autore nella Tuscia?
Non per il momento, ma non lo escludo in un prossimo futuro, magari d’estate quando Milano è semi deserta e potrei per un mese tenere chiusa la galleria. L’idea di creare una mostra dedicata al gioiello contemporaneo nella mia terra potrebbe essere stimolante. Ma servirebbe una location adatta a ospitare un’esposizione del genere, dove non si disperda il respiro internazionale dell’evento. Magari un luogo magico come Civita di Bagnoregio…

In una Milano che in questi ultimi giorni presenta il meglio del design, si può scoprire dal vivo l’universo del gioiello artistico alla Irene Belfi Gallery, in via Nino Bixio, 12 a Milano, dove fino alla fine di maggio, la mostra thinking hands #01 espone, oltre alle opere di Fischer e Kurihara, i due artisti menzionati nell’intervista, i monili di Kiko Gianocca, Tatjana Giorgadse, Sunyoung Kim, Christopher Thompson-Royds e Julia Walter.

Il suo futuro? Un mix di ricerca in cui tutto diviene fonte d’ispirazione.

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