Il monastero dei Santissimi Simeone e Giuda, la storia, il degrado e una riqualificazione mancata

di Luciano Costantini

Il monastero dei Santissimi Simeone e Giuda è un altro monumento all’incuria viterbese. Francamente non se ne sentiva il bisogno: troppe e dolorose le testimonianze della negligenza pubblica. Un sito che il tempo, oltre tutto, sta sgretolando inesorabile.

Il monastero viene innalzato all’inizio del Trecento da monaci Armeni dell’Ordine di San Basilio: non c’è da stupirsene perché in città sorgono già ospedali/ospizi dedicati a poveri e malati di diverse nazionalità che si trovano a percorrere la via Francigena.

E’ piantato a ridosso delle mura, in prossimità dell’attuale piazza Dante, nel 1434 viene abbandonato per motivi misteriosi. Subentrano i Gesuiti i quali, dopo una ventina di anni, chiedono e ottengono di traslocare nella basilica della Quercia, ma per motivi molto meno misteriosi: i proventi, in elemosine, lasciti e donazioni, che piovono sulla chiesa della Madonna sono cospicui mentre il San Simeone sta andando in malora.

E così è quasi un miracolo che alcune suore Francescane, dette della Penitenza, facciano richiesta all’autorità ecclesiastica di occuparsi loro del recupero e del risanamento del vecchio monastero degli Armeni. Sempre meglio che continuare a vivere in un tugurio nella chiesa di Santa Croce, che la famiglia Amfanelli ha loro concesso, e dove sono alloggiate.

Sono sei sorelle che hanno scelto una esistenza grama e rigorosa, tutta dedita allo spirito anche se non costretta dalla clausura. Suor Caledonia di Viterbo è la loro Ministra, suor Angela di Vetralla la Priora. Papa Sisto IV° è ben felice di accontentare le monache che, nell’aprile del 1479, prendono ufficialmente possesso del San Simone che “tracollava da ogni parte, che la chiesa era senza redditi, derelitta, disacconcia al culto, né vi si udiva più messe, se non in qualche rara festività ed a cura dei vicini”. Insomma, un disastro.

Cinque anni dopo il monastero è risorto. Di più, ha accumulato un tale tesoro in telerie, dipinti, ori, argenti che le monache non si sentono di custodire. Temono blitz di malintenzionati o possibili spogliazioni “legali”. Chiedono l’intervento dei Priori del Comune che coinvolgono i frati del Paradiso. Alla fine di comune accordo viene deciso di trasferire il tesoro nel munitissimo e centrale monastero di San Bernardino. Che fine esso abbia fatto non si sa mentre è certo che appena tre anni dopo il San Simeone risulta abbandonato e le suore scomparse.

Probabilmente perché distratte dalle luci e dalle sirene della vita terrena. Una diaspora che si trasforma in un inatteso colpo di fortuna per le vicine monache di Santa Rosa le quali, un po’ per invidia un po’ per immaginabili per quanto umani interessi, architettano di assestare il colpo di grazia al convento rivale.

Nell’aprile del 1487 abbattono un muro divisorio e invadono l’oratorio del San Simeone. Un blitz che i viterbesi condannano immediatamente e senza riserve. “Il Comune – scrive lo storico Cesare Pinzi – fece ricondurre le pecorelle di Santa Rosa dentro il loro chiuso e rizzò su, un’altra volta, il muro diroccato e collocò subito nel San Simeone altre monache, di cui pare che a quel tempo fosse un gran formicaio nella città”. Sono affidate ai frati Minori Osservanti del Paradiso e si conoscono come Bizoche del Terz’Ordine. Madre badessa è la viterbese Madonna Giannella. Sante donne, a leggere quel che dicono di loro i Priori comunali: “Sonno di povera vita et donne religiose, bone, virtuose et famose donne, tanto che speriamo in Dio, faranno grande honore et utile alla nostra città”. E ancora: “E per la loro virtù certi frati da Toscanella hanno operato col loro Ministro o Vicario levarle da qui e metterle a Toscanella per fare un loco lì”. Insomma, monache più che virtuose. Esempi viventi di rispetto della Regola. La loro clausura è la conclusione naturale di un percorso spirituale.

Le Francescane di un tempo così diventano Clarisse sotto la guida di otto monache inviate dal Santa Cosma di Roma. Il monastero di San Simeone si trasforma in monastero delle Clarisse. Sorelle tanto osservanti della Regola che alcuni anni più tardi Pio V° ordina al Guardiano di Santa Maria del Paradiso di “menargli a Roma quante monache del nostro San Simeone volessero andarvi per riformare il monastero di San Silvestro in Capite”.

Detto fatto, il padre Guardiano entra nel chiostro delle Clarisse e le trova tutte già umilmente genuflesse in segno di obbedienza. Ne sceglie nove, tra le quali suor Chiara Peroni di Viterbo e suor Veronica di Baschi che vengono fatte accomodare dentro due ceste di vimini, caricate su altrettante mule e condotte a Roma, accompagnate da un corteo di viterbesi plaudenti.

foto archivio Mauro Galeotti

 

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