In tutto il Medioevo Viterbo arriva a contare decine di ospizi od ospedali. Con punte di venticinque/trenta nei momenti in cui più massiccio è il transito dei pellegrini diretti a Roma. Un lentissimo seppure costante flusso si snoda lungo la via Francigena. Sarebbe tuttavia sbagliato e fuorviante immaginare quegli ospedali medievali come i moderni, ampi ed efficienti (si fa per dire) nosocomi di oggi. Si tratta più realisticamente, nella maggior parte dei casi, di poveri locali, bui, gelidi in inverno e soffocanti in estate, appoggiati alle chiese, amministrati da chierici e governati da oblati i quali in sostanza sono donne e uomini allo stato laico che dedicano la propria vita all’assistenza dei pellegrini e al sostentamento dei poveri. La larga maggioranza dei malati preferisce far fronte ai problemi personali restando in casa e affidandosi alle cure amorevoli dei familiari. Gli ospizi sono un po’ ospedali e un po’ bed & breakfast del tempo. Vivono grazie alle donazioni pubbliche e private e naturalmente grazie agli oboli dei pellegrini. Con alterna fortuna. Così alcuni sono costretti a chiudere, altri a passare la mano alle autorità ecclesiastiche, altri invece riescono a fiorire e fare affari. Esattamente ciò che avviene oggi magari per attività e scopi diversi: c’è chi ha la fortuna di individuare il momento e il filone giusto e chi è costretto a mollare. Il viterbese Pietro di Rosignolo probabilmente è uno di coloro che crede al business del turismo religioso, molto meno alla umana solidarietà. Nel 1217, come attesta un atto notarile del tempo, acquista un piccolo appezzamento di terreno sul quale costruisce una chiesa con annesso ospizio/ospedale. Il complesso viene intitolato a san Pietro. Si trova, anzi si trovava, in contrada “Le Cuffie”, lungo la vecchia strada che da Viterbo conduce a Montefiascone e che oggi è meglio conosciuta come “La Commenda”. Non è troppo distante da un’altra chiesa, più immancabile ospizio, detta Rianese e che tre secoli più tardi verrà trasformata in lazzaretto (da qui il nome di San Lazzaro) per essere infine abbattuta per far posto all’odierno cimitero. L’ospedale di San Pietro praticamente è un’area di servizio lungo “l’autostrada” Francigena e allo stesso tempo un sito dove praticare la solidarietà verso il prossimo. Di più non si sa perché nel corso dei secoli il luogo ha subito trasformazioni e dove non è arrivato il logoramento del tempo sono arrivati vomeri e badili dei contadini per i quali ogni palmo di terra è un pezzettino di vita. Pietro di Rosignolo è imprenditore lungimirante, forse amante della bella vita, certo sensibile al fascino femminile. Per far funzionare l’ospedale/ostello ha bisogno di personale. La piazza ne offre a sufficienza e a buon mercato. Sulla scena compare una oblata, di nome Cecilia, che chiede di poter impegnare il resto alla propria vita nella cura dei poveri e dei pellegrini. In cambio si accontenterà di un misero giaciglio in una cella e di un frugale pasto giornaliero. Ha scelto una esistenza da reclusa per meritare il paradiso. Verosimilmente, Cecilia, è giovane e belloccia. Comunque in grado di attrarre le attenzioni di quel sant’uomo che è Pietro, che non pratica la castità e dev’essere pure un po’ spilorcio. Per concludere l’accordo serve la buona volontà di tutti e poi il classico rito della iniziazione. Ad officiarlo viene chiamato tale padre Filippo della chiesa di santo Stefano. Tutto fila al meglio fino a quando Pietro dalle timide attenzioni passa alla corte spietata di Cecilia. L’uomo si trasforma in un autentico stalker, tanto da costringere la ragazza a fuggire nottetempo dalla prigione dell’ospizio e trovare rifugio in città, a casa di una amica di nome Francesca che le promette protezione. Eh sì perché don Pietro non si rassegna all’abbandono. Con le buone prima e poi con le minacce invita Cecilia a tornare all’ospizio. Evidentemente però il nostro esagera nei toni se è vero che contro di lui viene aperto un processo con tanto di testimoni, nelle persone di donna Francesca, l’amica di Cecilia e del sacerdote Filippo che ha officiato la cerimonia di insediamento della giovane nell’ospedale di Rosignolo. Il rifiuto di Cecilia è categorico e senza appello: “Tu sei un malvagio – grida dinanzi ai giudici rivolgendosi al suo indomabile spasimante nonché datore di lavoro – e fino a quando vivrai non finirò più nella tua rete”. Un autentico anatema. Certo un colpo fatale per l’immagine dell’ospedale e per l’orgoglio, ma non solo, dell’uomo che di lì a qualche mese tira le cuoia. Tre anni più tardi, siamo intorno al 1220, Pietro di Rosignolo risulta morto e la struttura che aveva creato diventa oggetto di una infuocata disputa tra un certo frate Guglielmo e il Capitolo di santo Stefano, proprio da quello dal quale era uscito frate Filippo, il padrino di Cecilia. In prima battuta il vescovo, chiamato a dirimere la lite, dà torto al Capitolo di santo Stefano. In appello il processo viene affidato da papa Onorio III° al giudizio del Priore di san Martino. La sentenza definitiva premia frate Guglielmo che resta rettore e custode dell’ospizio e il Capitolo viene condannato a prestargli “onore e riverenza”. L’ospizio per almeno altri trenta anni continua svolgere la sua funzione. Non si sa se con la collaborazione di Cecilia che forse ha deciso di imprimere una svolta alla sua vita, magari anche lontana dai rigori di suora laica. E’ certo invece che un altro oblato, tale Sinibaldo, nel 1252 donerà all’ospizio tutti i propri beni. Da allora sparisce ogni notizia della struttura, persino il nome Rosignolo. All’inizio del ‘500, infatti, rimane di Rosignolo soltanto la denominazione della contrada.