A quindici anni dalla prima, ecco una nuova edizione de La Tuscia nel cinema (Viterbo, Archeoares, 2023, I ed. 2008, pp. 247, € 20.00), monografia che tratta del rapporto tra la provincia di Viterbo e l’attività cinematografica. Rispetto alla prima sortita troviamo una grafica più vivace e sgargiante, immagini più ricercate, pressoché inedite, che conferiscono al tutto un carattere più suggestivo e, ovviamente, un carico maggiore di informazioni. E questo un po’ perché le risorse, anche grazie alla rete, sono sempre più accessibili, un po’ perché il succitato rapporto dell’Alto Lazio con il cinema è tale, per cui, come ipotizza a chiusura l’autore, è una storia che potrebbe anche essere infinita e sui cui fare in futuro chissà quante altre riedizioni.
Difatti, il volume termina con la menzione di alcune pellicole ancora in sala, o, visto il momento, proiettate proprio in questi giorni al Tuscia film fest, alla sua XX edizione. Una compagine che sta, per così dire, dietro alla produzione del volume e che ha promosso la divulgazione della conoscenza e della coscienza cinematografica sul territorio, in via ufficiale dal 2004. Un’attività il cui culmine è, appunto, un festival estivo che, tra ospiti illustri, dibattiti e premiazioni, si è, nel corso degli anni, spostato in vari punti, significativi, della Città di Viterbo, frazioni comprese, con alcune puntate in provincia, restando uno degli eventi a pagamento tra i più partecipati ed apprezzati nel Viterbese.
La Tuscia nel cinema rappresenta un po’ un approfondimento di questa attività, tra la storia e la, strettissima, cronaca. Un excursus di fatto che va di pari passo con l’intera parabola del cinema italiano. Si parte infatti dalla fine dell’Ottocento, con Filoteo Alberini di Orte, che l’11 novembre 1895 deposita a Firenze il brevetto del Kinetografo, prototipo della macchina da presa, circostanza che, almeno simbolicamente, spalanca per il Paese le porte alla principale arte del Secolo breve: la settima.
La suddivisione dei capitoli è tematico – cronologica, in base agli orientamenti, spesso di coincidenza decennale, della produzione cinematografica. All’interno di ogni capitolo c’è la trattazione delle varie opere, delle ambientazioni, con i retroscena, gli aneddoti, la critica ed i contributi, laddove reperibili, di testimoni e protagonisti.
Il vivo della vicenda ha inizio dagli anni Dieci del Novecento ma è con il realismo degli anni Trenta che la Città dei papi diviene location pressoché esclusiva per un lungometraggio di respiro nazionale. È La Vecchia guardia, di Alessandro Blasetti: un film, nelle intenzioni, di tenore propagandistico, finalizzato ad esaltare le gesta primordiali del fascismo nel conflitto con i rossi e, non si sa se per coincidenza o meno, girato in quella città che nel 1921 aveva cacciato proprio i fascisti durante le Tre giornate di Viterbo (10-12 luglio 1921). Nonostante, però, i propositi e alcuni elementi forzosi, tra cui la trasfigurazione romantica dello squadrismo fascista, la pellicola non venne accolta benissimo dal Regime che, ormai nel 1935, non era più intenzionato a rimembrare la natura antioperaia dei suoi esordi, che emerge chiaramente da un lavoro dalla fattura, appunto, realistica.
La frequentazione assidua di Viterbo e circondario con le attività cinematografiche, probabilmente, inizia proprio con questo film, cui farà seguito Un pilota ritorna (1942), opera sempre dagli intenti propagandistici, sempre non del tutto soddisfatti, con, dietro la macchina da presa, un certo Roberto Rossellini.
Altra pellicola fondamentale è I Vitelloni di Federico Fellini (1953), in larghissima parte girata in una Viterbo in cui il silenzio, il vuoto, la solitudine ed il vento degli scorci urbani, che ora ci appaiono spogli, fanno da perfetta cornice alla narrazione autobiografica, e malinconica, dell’autore. Un clima che sarebbe stato ripreso da Fabrizio De Andrè in Rimini, come lascia intendere l’autore stesso alla fine dell’esecuzione nel celebre live (consumato tra le contestazioni) con la Pfm del 1979: alludeva alla città adriatica, ovviamente filtrata dalle atmosfere struggenti del film che si rintracciano nel brano.
È, infine, d’obbligo aggiungere Il Vigile, di Luigi Zampa (1960), apice della cosiddetta commedia all’italiana, dove gli spaccati urbani e paesaggistici di Viterbo e dintorni appaiono tutti in modo nitido ed inequivocabile, anche oggi.
Da lì in poi si può dire che più unici che rari siano i cineasti che non abbiano fatto riferimento, in un modo o nell’altro, alla Tuscia. I motivi sono ben noti: innanzitutto la vicinanza con la Hollywood sul Tevere e poi degli scenari urbani e naturali, pochissimo intaccati dall’industrializzazione, dove, come si suol dire, non serve ricreare scenari o impiantare scenografie. Una provincia dallo scenario quindi onnicomprensivo, come poche altre in Italia, dove stanno la preistoria e la storia, dagli etruschi al Rinascimento, mentre la natura presenta il mare, i fiumi, i laghi, un po’ di piano, la collina e la montagna. Cosa altro occorre?
Il libro ricostruisce, minuziosamente, il seguito, sino a quelle che oggi chiamiamo serie, sanzione definitiva del consumo individuale anche nel cinema, un cinema che segue, e accompagna, l’andamento della società. Con il totale avvento della società dei consumi abbiamo, anche per la Tuscia, la produzione di una miriade di film tra cose dignitose e, molte altre, del tutto trascurabili, tra erotici, horror, demenziali etc. Qui, a partire dai Settanta, infatti, il libro diventa più faticoso alla lettura. Alla disamina fatta nel testo, forse, sarebbe stata sufficiente la filmografia, messa difatti in appendice assieme alle schede biografiche delle personalità di rilievo nell’ambito in oggetto.
In questo preciso istante, le sale cinematografiche sono scomparse nella città di Viterbo, con promesse e tentativi di rilancio, come ne sono stati fatti diversi negli ultimi anni. Sopravvivono, e a fatica, alcune multisale raggiungibili in macchina.
In centro spesso si possono trovare transenne, traffico, anche pedonale, bloccato, camion con attrezzature varie e catering, persone in costume che si aggirano nei vicoli e qualche volto noto, anche internazionale, tra bar e ristoranti.
È, al momento, la ricaduta effettiva nel quotidiano della simbiosi qui restituita.


























