Deposito scorie nucleari nella Tuscia? Il “no, grazie” di Slow Food Lazio

Che ne sarà della straordinaria concentrazione di biodiversità agricola difficilmente riscontrabile in altre zone d’Italia? Che ne sarà del delicato equilibrio ambientale salvaguardato per secoli grazie a una circoscritta industrializzazione e limitata dotazione infrastrutturale? Che ne sarà degli innumerevoli percorsi di turismo lento e borghi medievali che attraggono ogni anno migliaia di visitatori?

Sono gli interrogativi che noi di Slow Food Lazio ci poniamo da quando la Sogin ha individuato ben 22 aree nella provincia di Viterbo, tra 67 in Italia, candidate a diventare il deposito nazionale di scorie radioattive.

Una vera e propria doccia gelata in un periodo depressivo dal punto di vista economico e sociale a causa delle misure anti Covid-19, rispetto alla quale non possiamo mostrarci indifferenti tenendo conto che questo territorio nel corso degli anni ha già subito ferite gravi di cui ancora oggi sono visibili i segni. Il riferimento è alla costruzione a Montalto di Castro della centrale nucleare, in realtà mai entrata in funzione, all’utilizzo abusivo di numerose cave abbandonate per  sotterrare i rifiuti tossici, alla diffusione delle monocolture che hanno stravolto il paesaggio e stimolato il ricorso intensivo di fitofarmaci e prosciugamento delle falde acquifere, all’esagerato utilizzo di migliaia di ettari di terreno agricolo per gli impianti di pannelli solari, tra cui anche la centrale fotovoltaica più grande d’Europa.

Tuttavia grazie alla presenza prevalente di aziende agricole, molte delle quali biologiche, alla coltivazione e lavorazione di prodotti di eccellenza e all’incremento di piccole strutture ricettive, ideali per il turismo naturalistico ed enogastronomico, si era autorizzati a un diffuso ottimismo affinché, subito dopo la pandemia, potesse esserci un riscatto anche per questo piccolo ma sorprendete lembo d’Italia dove Civita di Bagnoregio, candidato a Patrimonio Unesco, è il simbolo della bellezza ma anche della fragilità.

In tal senso l’eventualità di un deposito di rifiuti nucleari nella Tuscia, con tutto ciò che ne conseguirebbe in termini di rischi e di penalizzazione dell’attrattività e investimenti economici, sarebbe il colpo definitivo a un territorio e al suo sviluppo che vede protagonisti piccoli produttori, artigiani, cuochi e operatori turistici, tra cui moltissimi giovani, che non hanno mai smesso di puntare con passione sullo sviluppo sostenibile, dedicandosi anima e corpo alla salvaguardia e valorizzazione della loro terra e cultura identitaria.

Ci teniamo a evidenziare che il nostro è un NO netto alla scelta della Tuscia per il deposito nazionale delle scorie radioattive e che ci batteremo in ogni modo affinché si giunga a una soluzione sostenibile, partecipata e condivisa. Ci appelliamo dunque al principio di precauzione e al diritto della difesa dei beni comuni e pubblici: suolo, paesaggio, acqua e all’equità intergenerazionale.

Per questi motivi noi di Slow Food chiediamo un approfondimento su come e quando sono stati valutati i criteri di idoneità, ci appelliamo  al rispetto del criterio CE 11 che prevede l’esclusione delle aree naturali protette e sottolineiamo il nostro impegno già in essere sugli aspetti eco-gastronomici per la stesura del dossier in collaborazione con le Amministrazioni locali, gli esperti della comunità scientifica universitaria, il Biodistretto della Via Amerina e delle Forre, le Associazioni ambientaliste, le Associazioni di categoria e tutte le componenti della società civile del territorio locali, regionali e nazionali.

Affinché ciò avvenga in maniera oculata e senza ripetere gli errori del passato ci associamo alla richiesta di quanti hanno già invocato l’immediata proroga dei termini dei 60 giorni per la presentazione delle osservazioni alla Consultazione pubblica di Sogin, affinché veramente si possa scrivere insieme un futuro più sicuro e sereno e non un futuro più incerto e drammatico.

 

 

La Rete di Associazioni e Comunità di Slow Food nel Lazio

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