Case: da via dell’Orticello a via san Sebastiano

di Maria Letizia Casciani

 

Cambio di casa, adìeu per sempre paura del cambiamento, benvenute novità che consentono di abbracciare ogni nuova opportunità e assimilare nuovi atteggiamenti…

Dopo gli esami di maturità, lasciai passare un paio di anni, caratterizzati da poco costrutto. Ne ho un ricordo a tratti opaco, indistinto. Ero stordita dal fallimento: una macchia, una vergogna bruciante, di cui preferivo non parlare. Ero incagliata; guardavo la vita passare e non agivo per buttarmi dentro. Quello che restava della mia autostima non emanava alcun segnale. 

Mi iscrissi all’Università – nella Capitale – facoltà di Lettere e Filosofia, indirizzo archeologico. La scelta era stata fatta più o meno a caso, senza riflettere, senza chiedere o ricevere consigli. Da bambina avevo pensato che sarei diventata archeologa e seguii quell’antica convinzione, senza farmi alcuna reale domanda su quello che desiderassi davvero diventare da grande. Sembrava che il mio futuro, la sua concretezza, non fosse tra le mie priorità.   

Sotto sotto ero certa che non sarei stata in grado di completare quegli studi, dal momento che non sarei più stata in grado di reggere la tensione di un esame: come avrei potuto ancora tollerare il peso della nebbia nel cervello, delle parole che non riescono ad uscire dalla bocca, del silenzio martellante di fronte a domande magari banali, alle quali non sarei riuscita a dare risposta?

Per consolarmi di un eventuale – a mio avviso, certo – fallimento, mi dicevo che frequentare l’Università e laurearsi era – tutto sommato – inutile: avrei potuto fare la commessa o l’estetista, cercare lavoro come impiegata; fare concorsi pubblici. Per tutte queste occupazioni non serviva essere laureati. Cercavo lavoretti che mi permettessero di essere indipendente. Perché questo era diventato il mio pallino: raggiungere l’indipendenza economica. 

Non volevo più dipendere dalla famiglia. Volevo scappare da quel paese, che cominciavo ad odiare.

All’università frequentavo le lezioni con regolarità, ma me ne stavo per conto mio in quelle aule affollatissime, non riuscivo a creare legami. Quella città così grande, quelle facce sconosciute intorno a me, generavano in me un senso di ansia. Ero una matricola, in mezzo a migliaia di altre. Un numero qualunque. Non ero preparata a questo anonimato. Quando ero nella Capitale, contavo i giorni che mancavano al ritorno in paese. Tornata in paese, ero presa dalla voglia di scappare via.

L’ansia scandiva ogni passaggio della mia giornata, della mia settimana, della mia vita.

Avevo elaborato complicati schemi con gli orari delle lezioni, vagavo da un’ala all’altra della Facoltà, prendevo appunti, passavo ore in Biblioteca a studiare, mi iscrivevo agli appelli, mi presentavo nel giorno stabilito, all’orario stabilito, rispondevo all’appello generale, quello della scrematura iniziale, ma, quando arrivava il momento di sedersi davanti al professore e di sottoporsi al giudizio, quando il mio nominativo risuonava nell’aula, chiaro per le mie orecchie ed arrivava il momento di rispondere a quella chiamata mettendosi a sedere, quando dunque c’era da assumersi il rischio dell’esame, presa dal terrore di fallire ancora, rimanevo in silenzio, non rispondevo, guardavo altri sedersi ed iniziare a parlare: uscivo velocemente dall’aula per tornare a casa. Con un nodo allo stomaco. Sconfitta. Frustrata.

La paura di fare di nuovo scena muta era più forte di tutto. Preferivo rinunciare. 

Mi convinsi che non sarei mai riuscita a superare quel blocco. Mi convinsi che l’Università non era la cosa adatta a me, che avrei dovuto lasciar perdere tutto.

In famiglia cominciavano a preoccuparsi. Quella preoccupazione era anche la mia, ma non riuscivo a trovare dentro di me le energie per superare quell’impasse. Per i miei genitori era soprattutto una questione di costi da sostenere; per me, oltre a questa pressione esercitata da loro, il problema era quello di riguadagnare la fiducia nelle mie capacità. 

Stavo per lasciare definitivamente gli studi. Che senso aveva restare iscritta, se in tutto quel tempo, quasi due anni, non ero riuscita a dare un solo esame?

Un giorno, dopo settimane e settimane di studio, arrivai in facoltà per tentare di sostenere – senza farmi troppe illusioni –  l’esame di Archeologia Greca e Romana. 

Il copione si ripeté identico, come era stato per i tentativi precedenti, fino all’ultimo passaggio: guardavo quelli che si sedevano e parlavano, ma il mio stomaco si chiudeva sempre di più. Mi resi conto che non ce l’avrei fatta neppure stavolta. Avrei preso a testate il muro!

Nel momento in cui venne pronunciato il mio nome, l’assistente che aveva in mano la lista degli iscritti, si rese conto, forse da un mio sguardo terrorizzato, forse dal fiato sospeso che notò in me, che quella lì davanti, quella pallida e con il cuore in gola, corrispondeva al nominativo che aveva appena chiamato.

Mi guardò con aria interrogativa.

“E’ Lei?” 

Lo guardai a mia volta, sorpresa e intimorita.

“Sì.”

“Beh? Allora? Che fa lì, in piedi?! Si sieda! Non vuole dare l’esame?”

Scossi la testa.

“Andrà male, meglio di no!”- risposi, preparandomi ad andare via.

“Se non si siede, andrà male comunque. Non crede che valga la pena provarci?” – insistette lui, lanciandomi uno sguardo di sfida.

Colpita da quella affermazione, tanto lapalissiana, che portava con sé una sola conseguenza, altrettanto lapalissiana, mi misi seduta, con le gambe che tremavano. Cominciò l’esame. 

Finì, dopo un tempo che mi parve interminabile, e andò molto bene.

Col senno di poi, non poteva che andare bene: avevo studiato tutto alla perfezione, conoscevo il manuale a memoria in ogni passaggio, comprese le note a pie’ di pagina.

Il professore si complimentò per il mio coraggio, mi diede un bel voto e mi congedò.

Avevo affrontato il lupo e ce l’avevo fatta. Era la chiara dimostrazione che quella della persona fallita, inadatta agli studi, era solo una favola che mi raccontavo al solo scopo di tagliarmi l’erba sotto i piedi.

Così cominciai a sostenere, uno dopo l’altro, gli esami, dopo tanti tentativi falliti. Ci sarebbero stati ancora molti capitomboli, ripensamenti e rinunce, dovuti all’ansia, all’accidia, alla voglia di fare altro, ma, a partire da quel giorno, riuscii a tenere duro e ad andare avanti.

 

 

 

 

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