Campo delle Rose: il sogno di riportare i nostri ragazzi a casa

Autismo: un termine usato per definire un insieme di disturbi neurobiologici che si cominciano a manifestare in tenera età e sono destinati a durare tutta la vita. L’autismo non è una malattia: se lo fosse, ci sarebbe una speranza di cura. Esistono infinite combinazioni di disturbi, tali da rendere unico e speciale ogni individuo che ne è affetto: alcuni possono presentare dei ritardi intellettivi, altri un QI superiore alla media. Comportamenti e interessi ristretti e ripetitivi, difficoltà o impossibilità ad entrare in contatto con gli altri, una ipersensibilità agli stimoli esterni tanto da non sopportare i cambiamenti di routine o gli imprevisti. E nei casi più gravi, aggressività e autolesionismo. Questa complessa sindrome risulta per lo più misteriosa per la maggioranza di noi e per molti professionisti del campo medico ed educativo, che non sanno ancora bene quale sia l’approccio migliore ad una assistenza dignitosa e costruttiva. È una realtà che riguarda da vicino tutta la nostra comunità: in Italia gli autistici sono ben 500 mila. E sono altrettante le famiglie su cui ricade quasi totalmente il carico di prendersi cura di chi, per la sua condizione, ha maggiormente bisogno di accudimento e di amore. E’ soprattutto di amore che parliamo con Franca Sassara, una mamma che si è trovata suo malgrado ad affrontare, insieme a suo figlio, problemi talmente grandi che rischiavano di schiacciare tutta la sua famiglia. Perché se è vero che sul nostro territorio esistono realtà in grado di farsi carico delle persone con autismo lieve e moderato, non esiste a tutt’oggi nessuna struttura in grado di occuparsi di chi, come il ragazzo di Franca, presenta il disturbo in modo grave. «Ci sono tanti spunti, occasioni di svago e di lavoro protetto, ai quali però se sei grave, con crisi che si presentano in modo regolare, non ce la fai a partecipare», ci racconta. «Non c’è un vero e proprio impegno in campo sanitario. È tutto affidato alle cooperative sul territorio, che lo fanno con buona volontà. Ma se il problema è particolare e va trattato in una certa maniera, la buona volontà non basta». In base ai Piani di Assistenza Individualizzati, la ASL in questi casi manda gli operatori a domicilio. «Però mancano le competenze specifiche sia in chi invia gli operatori, sia negli operatori stessi. Un approccio sbagliato rischia di aggravare il problema. Tutti questi aiuti sono modesti e se la situazione è grave e richiede un’assistenza impegnativa, notte e giorno, tu a distanza di dieci-quindici anni non ce la fai più». Così otto anni fa Franca e la sua famiglia si sono visti costretti a mandare il proprio figlio fuori regione, ad Arezzo, dove c’è l’istituto Madre della Divina Provvidenza dei Padri Passionisti, una struttura che accoglie anche quei casi che qui da noi, per la loro gravità, non vuole nessuno. «Abbiamo provato un dolore che non si può dire. Ti senti morire. Ricordo che all’inizio cucinavo tante cose per portargliele: era un modo per dare un significato alla sua assenza». Ad Arezzo si aprono le porte che nel nostro territorio erano rimaste ostinatamente chiuse. «Ci siamo rivolti a questa struttura perché le attività dei ragazzi sono seguite dal professor Michael Powers della Yale University: uno dei nomi di spicco a livello internazionale sull’autismo. Ad Arezzo si sono sviluppate competenze da noi assenti. Si mettono a punto le strategie per contenere i comportamenti-problema, che sono la nota dolente dell’autismo». Un percorso seguito anche da altre famiglie del territorio: sono ben ventitré i ragazzi viterbesi residenti presso l’istituto aretino. «Comunque ci rimaneva il rimpianto di averlo strappato alla sua casa e al suo ambiente. E le ore impiegate per il viaggio in macchina avremmo preferito dedicarle a lui». Ed ecco prendere forma il sogno di Franca Sassara e di suo marito: portare la struttura qui da noi. «Piano piano ci siamo messi al lavoro con questa idea: se lassù hanno lavorato meglio per questo problema e hanno gli strumenti, cerchiamo di trascinarli sul nostro territorio. Noi che ci eravamo sentiti sconfitti, abbiamo trovato un nuovo obiettivo e una nuova strada da percorrere». È nata così l’Associazione Campo delle Rose, che raggruppa una quindicina di famiglie e altrettanti volontari. «C’è una bravissima presidente, Graziella Iacoponi, grande mamma e donna molto determinata. Abbiamo avuto un supporto bellissimo dalle altre famiglie, ed è stata anche tanto bella la risposta delle associazioni qui sul territorio. Non ci siamo più sentiti soli». Campo delle Rose prende il nome dalla località vicino a Marta dove dovrebbe sorgere la struttura convenzionata, diretta emanazione dell’istituto aretino, in grado di accogliere il loro figlio e altre persone come lui. Un poggio dove regna la pace, immerso nella natura, da cui si riesce a vedere uno spicchio azzurro del lago di Bolsena. Grazie all’impegno dell’associazione e alle raccolte di fondi, è sorto già un grande edificio a due ali, con tante finestre a far entrare la luce. Spazi interni suddivisi e pensati per chi ci vivrà e che spesso considera gli spigoli come degli ostacoli perturbanti: molte pareti interne seguono infatti dolci linee curve. «Nei nostri progetti Campo delle Rose ospiterà sei persone in regime residenziale e quaranta in regime diurno, di cui uno dedicato specificamente all’autismo. E sotto indicazione della dott.ssa Gabriella Donetti della ASL di Viterbo, l’altro diurno verrà dedicato ai ragazzi con doppia diagnosi, ad esempio ritardo e problema psichiatrico: anche loro faticano a trovare accoglienza sul territorio. Ci sarà una mensa, una cucina, un’infermeria, moduli abitativi a riprodurre piccole villette. Spazi per lavorare. Giardini e percorsi protetti per poter passeggiare. Non sarà un posto triste. Vorremmo comporre per i nostri ragazzi una giornata con tante opportunità. E d’estate vorremmo portarli al mare, al lago, alla Faggeta: il territorio viterbese in questo è privilegiato». L’intento di Campo delle Rose è riprodurre una situazione di tipo familiare, a misura umana, dove non manchi però la sicurezza di un’assistenza sanitaria pronta e specifica che intervenga alla necessità. Dove i ragazzi si possano dedicare a tante attività e alla fine della giornata rientrare nella propria casa, nei propri spazi. Con il presupposto fondamentale di formare specificamente i futuri educatori. Franca Sassara ha superato l’iniziale timidezza di parlare in pubblico e ha cominciato a far conoscere la sua associazione e a promuovere raccolte di fondi a sostegno del loro progetto. Perché nessuno finanzia altrimenti l’immobile e i terreni circostanti. E parlare le riesce bene, perché lo fa con il cuore in mano. «Invece di lasciare che il dolore faccia scempio di noi stessi, costruiremo una piccola cosa buona per noi e per il nostro territorio, che dia un significato a tutto il resto». In attesa che Campo delle Rose sia finalmente completata, Franca tornerà come sempre ad Arezzo a trovare il suo ragazzo. Si metterà lì vicino a lui e se arriverà il momento giusto gli potrà chiedere un bacio. Riuscirà a trasmettergli il suo amore attraverso mille piccole sollecitudini, che potrebbero sembrare banali ad altre mamme più fortunate, ma che nel suo caso sono preziose. «Se potesse essere vicino a me potremmo fare tante piccole grandi cose. Gli potrei dire, ho fatto le fettuccine, vieni a mangiare!».

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