“Chi non sale ‘sti scalini nun è romano” recita un detto popolare in voga nei decenni passati nella Capitale, riferendosi al carcere di Regina Coeli. Facendo le dovute proporzioni, se ne potrebbe coniare un altro dal seguente tenore: “chi nun ha mai visto la Machena de Santa Rosa, nun ad’è vitorbese”.
Eh sì, perché quello che Orio Vergani definì il “campanile che cammina” è insito nel Dna di chi nasce e vive nel capoluogo della Tuscia. Impossibile farne a meno. Anche perché lo spettacolo è di quelli che ti lasciano senza fiato. O che ti fanno battere il cuore a mille.
Nonostante ciò la Macchina di Santa Rosa è stata per molto tempo una festa provinciale, anche se molto diversa dalle classiche sagre paesane. E solo negli ultimi decenni ha varcato i confini della Tuscia per essere notata sia nel resto d’Italia che all’estero. Complice anche il riconoscimento di patrimonio immateriale dell’umanità donatole dall’Unesco.
Quest’anno poi l’attesa è ancora maggiore, perché c’è un nuovo modello, frutto della creatività di colui che ormai è diventato il “santarosaro” per antonomasia (in precedenza ne aveva realizzati già altri due), ovverosia l’architetto Raffaele Ascenzi.
“Dies Natalis: questo il nome del campanile che debutterà per le vie del centro storico martedì 3 settembre. Una creazione da pugno nello stomaco, perché – abbandonato il clichè che aveva contraddistinto le forme delle Macchine dal Volo d’angeli in poi (parliamo quindi del 1967) – rappresenta un vero e proprio ritorno all’antico, in cui la bellezza si mescola con l’arte. Grazie anche alla sapienza e all’esperienza del costruttore Vincenzo Fiorillo.
“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico” recita il primo verso della poesia “L’aquilone”, di Giovanni Pascoli. Ebbene questo verso si attaglia perfettamente alla creatura ascenziana. Perché nella novità c’è un ritorno al passato. All’epoca dei Papini, dei Salcini o dei Paccosi.
E, soprattutto per quelli della mia età, tornano in mente proprio i ricordi del tempo che fu.
Già, i ricordi. La prima volta che vidi la Macchina di Santa Rosa ero un bambino. Non ricordo l’anno, ma il modello sì: era quello di Rodolfo Salcini. La vidi in piazza del Comune, insieme a mia madre che mi prese in braccio. Mio padre invece non c’era. In quanto agente di Ps, era impegnato nel servizio d’ordine. Poi non me ne persi più una: quella di Angelo Paccosi, fino al 1967, il primo anno del Volo d’angeli.
Avevo 15 anni. Ricordo che, insieme ad alcuni amici, scegliemmo un vicoletto che dava su Corso Italia. L’attesa era grande e divenne ansia perché la Macchina non arrivava mai. Poi, dopo un tempo immemorabile, passò un Facchino (credo si chiamasse Celestini, faceva il vigile urbano) che annunciò che la Macchina non sarebbe passata. Era ferma in via Cavour. E allora, via di corsa verso piazza del Comune: un caos indescrivibile. Il Volo d’angeli era fermo davanti alla Provincia. Fermo, ma stupendo nelle sue forme. La mattina dopo tornai per vederlo di giorno: aveva ancora più fascino. Non vi sto a raccontare le peripezie che Peppe Zucchi dovette affrontare dopo quell’incidente. Ma dico solo che un giorno sì e l’altro pure stava nella redazione viterbese de “Il Messaggero”, che gli dette una grossa mano a superare le difficoltà dell’epoca.
Nel 1972 il mio rapporto con la Macchina cambiò radicalmente, perché nel frattempo avevo cominciato la mia attività di apprendista giornalista nella redazione viterbese del giornale romano. E quell’anno mi fu affidato un compito improbo. All’epoca non c’erano le tecnologie di oggi. E, per pubblicare le foto dell’evento sul giornale del giorno dopo, bisognava portare i negativi a Roma con la macchina. Così io fui dislocato a piazza del Comune, in attesa del fotografo (si chiamava Mario Valenti) che nel frattempo aveva fatto una cinquantina di scatti. Mi dette due rullini e io, a piedi, dovetti risalire la corrente fino a porta Romana (non vi dico la fatica), dove ad attendermi c’era il capo della redazione Gianfilippo Chiaravalli, con la sua Alfa 1750. Poi, via di corsa verso la Capitale a folle velocità. Ma la missione fu compiuta con successo.
Nel 1978 cambiò tutto di nuovo, perché da Viterbo fui trasferito prima a Sulmona e poi a Roma. Ma nel frattempo avevo stretto amicizia con Peppe Zucchi (costruttore del Volo d’angeli), con suo figlio Luigi, con Nello Celestini e con suo figlio Lorenzo, mio compagno di classe alle scuole medie. E, pur vivendo nella Capitale, quando potevo tornavo a Viterbo la sera del 3 settembre. Anche perché, come giornalista, avevo il privilegio di precedere la Macchina di pochi metri per tutto il percorso e di godermi lo spettacolo tra spintoni e calci negli stinchi. Purtroppo mi persi il Trasporto straordinario del 1984 con Papa Giovanni Paolo II. Impegni di lavoro me lo impedirono.

Tra i tanti episodi vissuti in quel periodo ne ricordo particolarmente due: il primo riguarda Rosario Valeri, autore, insieme alla moglie Maria Antonietta Palazzetti, di “Spirale di fede; il secondo monsignor Fiorino Tagliaferri, vescovo di Viterbo negli anni ’90.
Con Valeri facevamo parte del comitato di quartiere Pilastro, uno dei primi rioni a inventarsi la mini-Macchina. E lui un giorno mi disse che voleva partecipare al bando per la nuova Macchina, quella grande, in programma nel 1979. E che aveva già il bozzetto pronto. Mi portò a casa sua e me lo fece vedere, con la consegna del massimo riserbo. Ed era proprio quello che poi vinse il concorso.
Poi ci fu l’episodio con monsignor Tagliaferri, vescovo di Viterbo dal 1987 al 1997. Non ricordo in che anno avvenne, ma di sicuro si trasportava “Sinfonia d’archi”, la Macchina di Angelo Russo. Il prelato aveva una particolarissima ammirazione per la Macchina, tanto da andare in estasi. Seguiva il percorso pochi metri avanti al campanile. Ma il suo incedere, data anche l’età non più giovanile, era insicuro e poteva diventare pericoloso per sé e per gli altri. Così, a piazza del Comune, quando la Macchina stava per ripartire, mi avvicinai a lui e, prendendolo sotto braccio, gli dissi: “Eccellenza, lei cammini all’indietro e ammiri lo spettacolo, io la guiderò”. E lo feci fino a piazza delle Erbe. Non vi dico i ringraziamenti per quel piccolo gesto di cortesia.
Col passare degli anni, anche se la mia ammirazione per la Macchina è rimasta sempre immutata, mi sono accorto che seguire l’intero percorso stava diventando per me un’impresa non facile. E allora feci largo ai giovani. Anzi, a un giovane: Massimo Chiaravalli, anche lui “santarosaro” d’eccezione.
E ora siamo arrivati al 2024, aspettando “Dies Natalis”. Da quando la Macchina è stata montata a San Sisto è cominciata la processione dei curiosi. Ma il bello arriverà la sera del 3 settembre. Che dire: sicuramente sarà un successo.



























