8 marzo 2024, omaggio a Giovanna Pannega, la Caterinaccia a 50 anni dalla sua morte

di Vincenzo Ceniti 

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Riproponiamo l’articolo di Vincenzo Ceniti per onorare una donna che ci ha insegnato il valore della dignità. Di cui in questo anno ricorrono i 50 anni della sua morte.
Stavolta il mazzolino di mimosa dell’8 marzo lo regaliamo alla Caterinaccia, figura indimenticabile della Viterbo di ieri. Sembra un dispregiativo di Caterina, ma non è vero. E’ riportato solo per rispetto della cronaca (veniva chiamata così). Il nomignolo è piuttosto un gesto di simpatia che molti viterbesi avevano per lei, una donna emarginata e sfortunata, ma di grande dignità.
Per l’anagrafe, nacque il 27 febbraio 1890, a Ischia di Castro, nell’Alto Viterbese, terra di preti e dei Farnese che avevano qui una solida postazione nella rocca-palazzo che s‘acquatta al centro del paese. Si sposò il 3 agosto 1930 con Oreste Calarco, un povero diavolo che sbarcava il lunario a fatica (per qualche maligno era un’abile “manolesta”), di cui poi rimase vedova.
La prese con il figlio Alfio di cinque anni avuto precedentemente a 35 anni. Il padre naturale (si dice che fosse stato un uomo facoltoso) ci avrebbe messo molto del suo aiutando il giovane Alfio a studiare in un collegio a Roma.
Caterina si trasferì a Viterbo nel settembre di quel 1930 andando ad abitare in un piccolo appartamento in via Mazzini, prossimo all’imbocco di via del Suffragio.
Era amica di Primo Nocilli, il noto imprenditore di pompe funebri, che considerava come un angelo custode. La ricordo con il suo passo dondolante e nervoso, il viso incartapecorito, due occhi scorbutici e intelligenti, un paio di stivali da uomo, una veste lunga e sdrucita, una pellegrina sulle spalle, un cappellaccio informe e il cane tenuto a bada con una cordicella.
Vagava per la città vendendo violette e cercando di combinare il pranzo con la cena. Aiutava Alfio in vari lavoretti e servizi come quello di prelevare i cartoni presso abitazioni, botteghe o al Luna Park (le Giostre come venivano chiamate a Viterbo per le feste di Santa Rosa) che legava maldestramente su un carrettino sgangherato per rivendere a due soldi. Ma quelli bastavano. Di frequente percorreva Corso Italia dove sostava davanti alle vetrine di qualche negozio per raccattare una manciata di spiccioli.
Di domenica all’uscita della Messa nella chiesa del Suffragio donava alla signore un mazzetto delle sue violette accuratamente composto per riceverne quattro soldi. Mai chiesta la carità. Aldo Pennello che è stato uno dei negozianti più storici del Corso mi raccontava che un giorno la vide con un grande cappello di paglia. “Me lo ha regalato Alberto Magoni” (titolare del negozio accanto al Gran Caffè Schenardi). Per non essere da meno Aldo le donò un fiocco rosso da porre sul cappello. Poi la fece specchiare ed essa esclamò “E’ la prima volta che mi vedo”…
Per i ragazzini degli anni Quaranta-Cinquanta era una sorta di strega che faceva paura. “Quando andavamo a piedi al Bulicame – mi raccontavano – lungo la strada sterrata che partiva da porta Faul, davanti alla sua grotta dove s’era rifugiata durante i bombardamenti, acceleravamo il passo per la paura”. Caterina si sposò in seconde nozze con Enrico Duri nel 1950 che conobbe nell’ospizio di San Carluccio a Viterbo.
Morì nell’Ospedale Grande il 27 dicembre 1974 ed è sepolta nel cimitero di San Lazzaro.
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