Viterbo nel Medioevo: le penalità nell’epoca feudale

di Luciano Costantini

Scrive Cesare Pinzi commentando lo Statuto del Comune di Viterbo del 1251: “…Non è senza compiacimento che veggiamo, come, non ostante la ferocia di quella età uscita da poco dall’abbrutimento della barbarie, non ostante la foga delle passioni così fieramente ribollenti in quei petti, la vendetta della loro società non li spingesse fino allo spargimento del sangue. La pena di morte e la efferatezza delle torture, proprie dei tempi posteriori, non sono scritte in quei Codici. Il nostro Comune, per repellere dal suo seno gli indegni e i facinorosi, non sentia il bisogno di armare la mano di scure…”. Cioè, Viterbo non prevedeva la pena capitale neppure per le situazioni più cruente. Ciò non toglie che l’amministrazione della giustizia fosse assai severa come testimonia una puntigliosa gradualità delle pene: si va dalla semplice ammenda pecuniaria all’allontanamento del reo dalla città, dalla fustigazione al diroccamento della sua casa, dalla messa in catene al taglio di una o tutte due le mani. Pene che andavano raddoppiate allorché il reato veniva commesso contro cittadini che si recavano in chiesa, a un matrimonio, a una semplice riunione pubblica. O, ancora, quando frequentavano i Bagni del Bullicame negli ultimi tre giorni di Carnevale, dal giovedì santo al terzo giorno di Pasqua, per l’Assunzione e le festività natalizie. Pene che venivano ulteriormente raddoppiate se i crimini venivano perpetrati di notte, invece ridotte se a commetterli erano dei minori. Un elenco lunghissimo, quello delle pene. Stupisce soprattutto la sua articolazione. Mandanti e complici erano colpiti con la stessa condanna. Bestemmiare Dio, Maria Vergine e i santi costava 40 soldi, da dividere tra Curia e il denunciante. Come 40 soldi doveva pagare chi dava all’avversario del “cornuto, spergiuro, mentitore o trascorrea ad altre simili ingiurie”. Pena raddoppiata, ovviamente, se l’offesa era ripetuta. Se poi dalle parole si passava ai fatti, l’ammenda lievitava: 100 soldi per un pugno o uno schiaffo, 10 lire se ci scappava il sangue. Ma la legge non era uguale per tutti se è vero che non pagava neppure un soldo quel padrone che picchiava o frustava “un suo servo, operaio o discepolo purché lo facesse moderatamente”. Che poteva voler dire anche in maniera cruenta, comunque tale che non “si uccidesse il paziente, non gli si rompessero le ossa o gli si troncasse qualche membro”. Insomma, non si doveva ammazzare, ma menar le mani sì poteva. Eccome. Proprio per questo c’era un listino prezzi anche per le ferite: 30 lire ogni colpo di “spiedo, spada, spadone, mannaia, coltello, falce, mazza ferrata; 10 lire per uno di lancia o con l’impugnatura della spada”. L’arma bianca faceva quasi parte del corredo personale nonostante la Curia avesse dettato regole stringenti per il …porto d’armi. Chi veniva trovato in possesso di coltello era punito con una multa da 20 soldi; il doppio se lo si “tenea nascosto nelle brache o nei calzoni>, ma se lo si portava in mano “pendente dallato, senza alcuna insidia o prava intenzione”, be’ non era prevista alcuna ammenda. In caso di rissa, il giudice valutava, oltre che l’operato dei protagonisti, anche le “armi” utilizzate: pena di 20 soldi per il ricorso a lancia e spada, 100 per l’arco, 10 lire per la balestra. Era multato di 50 lire chi allestiva macchine o catapulte per colpire le dimore del nemico. In caso di rivolta verso le autorità comunali, il responsabile veniva punito direttamente dal Podestà e comunque subiva il diroccamento di cinque file di pietre della torre di famiglia. Infine l’omicidio: né pena di morte né ergastolo. Intanto il presunto assassino era immediatamente allontanato da Viterbo, in attesa che si presentasse dinanzi alla Curia. Se riconosciuto colpevole, veniva messo al bando (non meno di un miglio dalle mura), la sua casa abbattuta e lui costretto a pagare 100 lire. 200 in caso di premeditazione, somma che veniva equamente divisa tra Comune ed eredi della vittima. Nessuna pena per chi uccideva per difendere se stesso, la moglie, un figlio, un parente, purché “non avesse ecceduto nella difesa” e per chi accoppava un ladro armato colto in flagrante o uno sconosciuto (almeno per lui) a letto con la propria madre, consorte e sorella.

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