Via Cesare Battisti. “Quella volta in cui sono scappata dall’asilo…”

Maria Letizia Casciani

I racconti del giovedì di Maria Letizia Casciani con Le case della Vita ci accompagnano quest’oggi nei momenti più difficili dell’infanzia, tra gelosie complicate da metabolizzare, e a volte, anche traumatiche. Che premono nella necessità di trovare soluzioni.. anche nei modi più bizzarri. Buona lettura

Non so bene perché (o forse sì), ma da un certo punto in poi della mia vita di bambina, mi fu affibbiato il soprannome di “Maria Pestizia”, dal momento che, a insindacabile giudizio di tutti, dimostravo di essere un soggetto sempre pronto a macinare guai.
Indisciplinata, bugiarda, testarda fino allo spasimo.
“Una ne fai e cento ne pensi!”- mi dicevano spesso.
Sembrava proprio che in me si fossero concentrate le peggiori qualità che una bambina potesse avere.
“Sei un maschiaccio!” – mi ripetevano.
Una bravata clamorosa fu quella in cui progettai (all’età di cinque anni) l’evasione dall’edificio che ospitava, oltre al convento delle suore, l’asilo, la scuola materna dove noi bambini trascorrevamo gran parte della giornata.
Credo che il folle piano sia scaturito come conseguenza della tremenda gelosia nei confronti dell’ultimo arrivato nella nostra casa: mio fratello.
Un “intruso” che si materializzò all’improvviso nella mia vita.
Forse, non proprio all’improvviso, ma a me così parve. Forse mi rifiutai di credere fino all’ultimo minuto che la nostra famiglia potesse cambiare, che potesse ingrandirsi. O forse, molto semplicemente, per tutta la durata della gravidanza di mia madre decisi di ignorare il problema.
La mia, comunque, deve essere stata, una gelosia irrefrenabile, folle e totale, come solo un bambino può concepire, perché, per quanto io frughi nella mia memoria, non riesco a trovare immagini della mamma col pancione, segno che ci deve essere stata, da parte mia, una censura molto robusta.
L’unico concreto ricordo che ho, ancora oggi, risale alla sera fatidica della nascita. A quel punto sarebbe stato inutile fare finta di nulla. Il gran giorno era arrivato.
In quegli anni – a metà degli anni Sessanta – si nasceva ancora in casa, almeno nei paesi come il mio.
Arrivava la levatrice, coadiuvata da un buon numero di donne ed il piccolo, o la piccola, arrivava, quasi sempre senza problemi. E fu così anche quella sera di novembre.
Non ho assistito all’evento, ma ricordo perfettamente la concitazione che c’era in casa.
Io e mia sorella eravamo ancora troppo piccole, perché ci fosse permesso di restare a casa nostra. Doveva restare una cosa tra adulti. I bambini non erano ammessi a conoscere certi segreti. Io e mia sorella non facevamo eccezione.
Nessuna di noi due aveva la minima idea di come nascessero i bambini. Tutti ci avevano assicurato che arrivavano portati da una cicogna e non avevamo motivo di dubitare della versione degli adulti.
Ma perché ci portavano via di casa, perché non ci permettevano di vedere l’arrivo di questo animale e del suo fagottino? Inutile insistere.
Gli adulti avevano deciso che quella sera noi due saremmo dovute andare dalla nonna paterna, senza discussioni.
Perciò io e lei fummo accompagnate lì ed in tarda serata ci giunse la notizia dell’arrivo del fratellino. Che seccatura, questo fratellino! Perché proprio ora? Era davvero necessario che arrivasse? Io non volevo un fratellino, di questo ero sicura!
Fin da subito, questo divenne ai miei occhi: un invasore. Non sarei stata più la sorella minore. Lui sarebbe diventato il più piccolo!
Riguardo a ciò mi arrivò una triste conferma proprio il giorno successivo alla nascita, quando, dopo essere state finalmente riammesse in casa, arrivarono alcuni parenti in visita alla puerpera ed al nuovo nato. Per gentilezza, si intrattennero anche con noi due, ormai relegate e promosse all’improvviso, senza che nessuno ci avesse consultato prima, al ruolo di “sorelle maggiori”.
Uno zio piuttosto anziano, rivolgendosi a me, se ne uscì con una frase che fu per me una specie di “De profundis”: “Lo sai che adesso sei cascata dal sedione?”
(cioè: “Lo sai tu, che fino a poco fa eri la più piccola e coccolata, che da questo momento in poi sei una derelitta che è caduta dal seggiolone dei bambini piccoli ed il tuo comodo posto sarà occupato dal nuovo arrivato?”)
Deve essere stata per me una rivelazione tremenda, perché ancora oggi ricordo il punto della casa in cui avvenne la scena: in corridoio, proprio fuori dalla stanza da letto dove il mio fratellino dormiva beato e coccolato.
Quella frase infelice dovette generare in me un grande, grandissimo subbuglio; ne derivò un bisogno impellente di tenere sotto controllo costante la situazione.
Cosa succedeva in casa nelle ore in cui non c’ero? Quella specie di bambolotto mi avrebbe privato di tutto. Come fare?
Dovevo essere terribilmente in ansia, se giunsi fino al punto da fuggire dall’asilo due o tre mattine dopo.
Trovai anche un complice del mio misfatto, che si prestò ad aiutarmi e fuggì con me: il figlio della levatrice.
Non so come io sia riuscito a convincerlo, ma mi seguì nell’impresa scellerata. Fuggimmo come due briganti.
Anche di quel momento ho ben stampata in mente un’immagine: io e lui che varchiamo, quatti quatti, la soglia del convento, all’interno del quale si trovava l’asilo. Ho anche molto netto il ricordo del mio sguardo, che si volge verso casa, che, per fortuna di entrambi, era distante solo poche decine di metri.
Quello che non ricordo, tuttavia è un elemento: l’espressione che di certo si sarà dipinta sul viso della mamma, nel preciso istante in cui mi ha visto varcare la soglia di casa.
Di sicuro, poi, saranno state botte! E di sicuro si sarà rafforzata in tutti quanti l’idea che in fondo ero proprio una “Maria Pestizia”!

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