Via Cesare Battisti, la maestra Maria

Maria Letizia Casciani

Nella mia vita ho amato poche persone come la maestra Maria.

Era una donna forte, energica, un po’ burbera, ma solo in apparenza, perché era anche capace di un affetto forte e tenace, anche se privo di fronzoli.

Aveva un fisico solido, un sorriso energico, una risata squillante e fumava come un turco.

Era comunista fino al midollo.

Non era sposata, cosa che tutti, in quegli anni, consideravano un po’ sconveniente. Nessuna donna, a quell’età, poteva restare nubile a lungo, senza destare sospetti.

Io l’amavo alla follia.

Ho continuato ad amarla anche negli anni, nei decenni successivi. Per me è stata un indelebile punto di riferimento, anche nel mio lavoro.

Fino a qualche anno fa – quando era ancora in vita – ogni volta che mi capitava di incontrarla, mi avvicinavo a lei per salutarla, e lo facevo con un senso di premura e gratitudine, consapevole di avere di fronte a me una delle persone che hanno contribuito in modo determinante a fare di me quella che sono ancora oggi.

E lei ha costruito, molto, con la sua tenacia e con la sua pazienza. Con me ci volle una buona dose di entrambe.

Ero una bambina ancora tutta da costruire. Intelligente, di sicuro, ma testarda, ribelle e tendenzialmente indisciplinata. La scuola sarebbe stata per me una cartina al tornasole: acido o basico. Il risultato finale non si prospettava affatto scontato, prima della prova.

Ricordo ancora l’estate che precedette immediatamente la prima elementare.

Un episodio, in particolare, mi è rimasto in mente. Accadde una sera tardi, prima di cena.

Vicino alla ferramenta della mamma si trovava il lavatoio pubblico.

Quella sera, mentre la mamma risciacquava le cose nelle vasche, prima che si ritornasse a casa con la conca dei panni da stendere, si intrattenne a parlare con un’altra donna, anche lei lì per il bucato.

La mamma già conosceva il nome della mia futura maestra, forse perché in quegli anni le insegnanti si alternavano con regolarità, iniziando la prima classe dopo la quinta appena uscita. Dopo aver sentito il nome della maestra, Maria, l’altra donna mise in guardia mia madre, adducendo come motivo la grande severità di quella maestra, temuta da molti in paese.

La mamma non si lasciò impressionare.

Rispose, anzi, di essere molto contenta, perché, a suo dire, con il mio carattere, il mio senso di indipendenza e la mia proverbiale testardaggine, una come lei avrebbe dato un verso alla mia testa dura.

Dal suo punto di vista, era, quindi, proprio ciò di cui avevo urgente bisogno.

Ascoltai quelle parole con un po’ di timore: e se questa maestra fosse stata davvero “cattiva” come tutti pensavano? Come avrei potuto affrontare le scuole elementari, subendo la persecuzione di una megera?

Mi rivedo ancora chiaramente, seduta sugli scalini del lavatoio, intenta ad assorbire ed elaborare quelle parole.

Mi prese una certa inquietudine, come sempre, ancora oggi, quando ho a che fare con persone sconosciute di cui devo conquistare stima ed affetto.

Molti anni dopo mi capitò di leggere il libretto che accompagnava noi alunni dalle elementari alle medie. Era compilato dalle maestre. La maestra Maria aveva elaborato il mio.

Tra le tante cose che si trovavano in quelle pagine – tutte belle – lei, con la sua grafia forte e decisa, aveva scritto una frase che si rivelò poi la cifra della mia vita: “Ha molte doti, ma deve essere guidata, perché tende a fare troppo di testa sua.”

Mia madre aveva dunque delle ragioni per essere contenta dell’arrivo di quell’insegnante nella mia vita.

In quella fase, prima di cominciare ad andare a scuola, infatti, ero già una bambina curiosa di tutto.

Avevo imparato a leggere da sola e mi cimentavo discretamente anche nella scrittura: amavo, in particolare, la lettura dei fumetti di Topolino.

Per me, ormai, non era più il tempo di guardare soltanto le figure di un libro: davanti ai miei occhi si apriva l’immenso campo della comprensione delle cose, di gran lunga il più affascinante, più ampio.

Stavo crescendo.

Non ricordo come fossi riuscita ad imparare a leggere e scrivere da sola.

Di sicuro qualcuno mi avrà aiutato, forse mia sorella, più grande di me di cinque anni, ma buona parte del lavoro l’ho portata avanti da sola.

La mia voglia di imparare era già allora enorme. Lo è sempre stata.

Decisi fin da subito che andare a scuola mi sarebbe piaciuto. Non c’ero mai stata prima, ma già mi piaceva!

La maestra “cattiva” mi avrebbe senz’altro voluto bene, mi dissi, per rassicurarmi.

Le avrei dimostrato che, a dispetto di ogni giudizio, ero una bambina amabile.

E questo fu lo spirito che mi animò fin da subito: entusiasmo!

Arrivata sui banchi, col trascorre delle settimane dell’anno scolastico, non appena assorbivo un argomento, non vedevo l’ora di passare a quelli successivi, che ancora non conoscevo ed ero smaniosa di conoscere. Mi sentivo felice! La scuola era la mia piscina, adoravo nuotare lì come un pesciolino.

Certo, come alunna dovevo essere un vero assillo. E non da poco.

Non appena la maestra Maria assegnava un esercizio, lo terminavo alla velocità della luce e correvo alla cattedra per averne un altro.

Non si trattava di desiderio di compiacere la maestra o di avere bei voti. Non è mai stata questa la mia natura. I voti per me non sono mai stati una priorità.

Certo, se prendevo un bel dieci e lode ero felicissima, lo portavo a casa come un trofeo di caccia, ma non era una cosa capace di influenzare la mia vita.

Non ho mai studiato per i voti.

Volevo solo imparare. La mia unica molla era quella.

La maestra Maria era ben consapevole di questo, mi apprezzava, mi assecondava, aveva con me una pazienza degna di Giobbe, ma, a volte, anche lei, di fronte alle mie richieste pressanti, si esauriva.

Un bel giorno, di fronte al mio ennesimo arrembaggio verso la cattedra, tolse la cinta dal mio grembiule e con quella mi legò saldamente alla sedia, di fronte al banco, intimandomi di non muovermi fino a nuovo ordine.

Ero un animale strano, ai suoi occhi, forse. Doveva faticare tutto il giorno per far studiare tutti quei ragazzini, che odiavano fare esercizi e ripetere la lezione, mentre era costretta a mettere un freno al mio entusiasmo. Dovevo essere una gran rompiscatole.

Quello che lei non poteva sapere era che questa immersione nella conoscenza era forse una via fuga da cose che mi incutevano timore, creavano inquietudine.

Il sapere era per me un rifugio, un mondo accogliente e protettivo, come poi è stato per il resto della mia vita.

Questa avventura per me è iniziata proprio lì, sui banchi della scuola elementare, perché a scuola non mi annoiavo mai.

Soprattutto, non avrei mai voluto che arrivassero le vacanze. Ma perché andare in vacanza? A scuola si stava così bene!

A giugno, nei primi giorni delle vacanze estive,  festeggiavo, sembravo in preda ad una gioia sfrenata, per le settimane di beatissimo riposo che mi aspettavano, ma poi, dopo qualche giorno, mi mancava la routine della scuola, il mio piccolo guscio protettivo.

Svolgevo minuziosamente tutti i compiti delle vacanze, cercavo di portarli a termine nel modo migliore possibile. Era pur sempre un modo per sentirsi a scuola, vicina alla maestra ed ai compagni.

Quando cominciava ad avvicinarsi Ottobre, con la ripresa delle lezioni, mi sentivo felice solo al pensiero che tutto sarebbe ricominciato.

Preparavo i quaderni, compravo un bell’astuccio, pieno di matite colorate, ordinate per sfumature. Mi piaceva guardare e pensare che sarebbero rimaste perfette per tutto l’anno scolastico. Non volevo certo sciupare tutti quegli oggetti!

Le cose, per fortuna, non andavano secondo i piani e, in capo a qualche mese, la disposizione secondo le sfumature naufragava e tutto l’astuccio ostentava un disordine pasticcione.

Non appena poi la mamma portava a casa i libri di testo, subito mi mettevo a leggerli.

In pochi giorni la lettura era terminata e nuovamente mi trovavo ad aver già svolto, anche se parzialmente, il lavoro che in classe sarebbe andato avanti un passo alla volta.

Ero sempre “sfasata”, rispetto agli altri.

Nella mia vita, però, non c’era solo lo studio. Avevo le mie amiche del cuore ed amavo molto trascorrere con loro la ricreazione a chiacchierare e a giocare in giardino.

Ero sempre disponibile ad aiutare i compagni  nei compiti, suggerivo le risposte giuste a quelli in difficoltà, quando arrivavo a scuola, la mattina presto, “passavo” i compiti a chi non li avesse svolti.

Per stimolare il mio senso di collaborazione, la maestra, per un periodo abbastanza lungo, affidò alle mie cure una compagna che aveva enormi difficoltà: proveniva da una famiglia poverissima e faticava a seguire il lavoro di classe. Fu la mia prima alunna, in un certo senso.

Presi molto sul serio questo compito, anche se, a dire la verità, quella bambina non riscuoteva la mia simpatia, perché era svogliata e apatica.

Spesso non riusciva a capire le cose ed io perdevo la pazienza: come era possibile che non capisse ciò che le avevo appena spiegato?

I suoi problemi con la matematica erano tremendi e non riuscivo a comprendere come non le entrassero in testa cose che a me parevano davvero banali.

Mi guardava con i suoi occhi acquosi, bovini, tirando su con il naso, da cui pendevano eternamente dei moccoli, che io trovavo detestabili. Me li sognavo anche di notte. Ho capito allora, per la prima volta, che insegnare non è sempre facile e divertente, che a volte si ha a che fare con persone che non ci piacciono, con le quali dobbiamo entrare in relazione, semplicemente perché è necessario farlo.

Il racconto precedente Leggi qui 

La prossima puntata del Le Case della Vita il 7 giugno 2018

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