Un gioiello della pittura barocca introdotta a Viterbo, ma sconosciuto ai più

di Pietro Boschi

Anno 1912: a Viterbo le civiche raccolte museali vengono trasferite dal palazzo del Comune all’allora chiesa sconsacrata di Santa Maria della Verità, in Piazza Francesco Crispi. Nello stesso anno, in un’altra piazza intitolata a Dante Alighieri, il monastero di Santa Caterina veniva radicalmente modificato perdendo definitivamente l’originaria configurazione architettonica. Al posto di quell’antico complesso, fondato nel 1520 per accogliere pochi anni dopo una comunità di monache benedettine – e noto soprattutto per aver ospitato dal 1541 al 1543 Vittoria Colonna – sta oggi la sede centrale del Liceo Scientifico Statale Paolo Ruffini. Eppure il tempo non ha del tutto cancellato la spiritualità e la bellezza di quello che fu un luogo dominato dal silenzio della meditazione, dove la rigorosa regolarità dei rituali monastici irreggimentava, scandendolo in un ritmo sempre uguale a se stesso, la vita delle religiose che lì abitavano. E infatti oggi, oltre i corridoi dove l’inquietudine adolescenziale si fa chiacchiericcio scomposto e chiassoso, oltre i bagni imbrattati da scritte irriverenti e sempre annuvolate da ogni specie di fumo, qualcosa s’apre, imprevedibile, allo sguardo: è l’ex chiesa di Santa Caterina, oggi aula magna del Ruffini. Qui, al di sopra delle pareti decorate con stucchi dorati e plasmati all’interno di nicchioni un tempo impreziositi da pale d’altare, s’innalza un’imponente architectura picta che s’apre con grande audacia prospettica su di un cielo popolato da angeli svolazzanti, putti, santi sorretti da nuvole. Al centro della volta – unico punto di fuga verso cui converge l’intera intelaiatura prospettica dell’apparato pittorico – la colomba dello Spirito Santo emana raggi luminosi che, propagandosi in ogni direzione, allontanano le nubi in modo centrifugo, aprendo così un varco circolare verso la profondità insondabile degli spazi celestiali. Poco più sotto, ai margini del confine rotondo e cirroso oltre cui si staglia l’infinito, s’affrontano invece le figure del Padre e del Figlio. Poi, scendendo ancora con lo sguardo, s’incontra la figura di Maria Vergine cui seguono, secondo un criterio gerarchico discendente, altre figure di santi e di sante. Tra queste ultime, a sinistra di chi guarda, spicca quella isolata di santa Caterina d’Alessandria, tutta protesa alla contemplazione di Maria e della Santissima Trinità. A inquadrare il cielo di Dio sta, come s’è detto, una cornice fittizia e fortemente scorciata fatta di colonne marmoree impreziosite da movimentate modanature e da capitelli dorati. Arditamente aggettante è poi una balconata dietro la cui balaustra fanno inaspettato capolino alcune monache benedettine.

L’esteso affresco sancisce la penetrazione, anche a Viterbo, di un Barocco pittorico tutto improntato alla fusione di architetture reali con prodigiose e monumentali architetture dipinte, a loro volta funzionali all’esaltazione di grandi estensioni di cielo virtualmente spalancate verso profondità siderali. Questo specifico genere di Barocco fu interprete della concezione estetica promossa dalla Compagnia di Gesù, concezione mirata al coinvolgimento emotivo di tutti coloro che facevano ingresso nelle chiese gesuitiche in cui la gloria di Dio e la presenza dei santi apparivano come una travolgente, immaginifica esperienza sensoriale e spirituale.

Tale specifica declinazione del Barocco (maturata nel corso del Seicento) raggiunge il suo apice nella volta della chiesa romana di Sant’Ignazio dipinta da Andrea Pozzo entro il 1694. Avrà, la maniera del Pozzo, un impatto internazionale, interessando però anche numerose città di provincia, inclusa Viterbo.  Sarà la chiesa del convento di Santa Caterina ad accogliere invero le novità della pittura di matrice pozziana. Ciò si è reso possibile grazie a un intraprendente allievo del Pozzo, già impegnato nella dipintura della quadratura architettonica presente nella succitata volta di Sant’Ignazio.  Egli non solo conosce Viterbo, ma ha pure validi motivi per stabilircisi. Non per nulla, nella cittadina risiedono alcuni dei suoi numerosi figli, tra cui ben quattro femmine entrate come monache proprio nel monastero di Santa Caterina nel 1712: lo stesso anno in cui il padre firma e data il lavoro svolto nella chiesa delle benedettine. Il pittore risponde al nome di Antonio Colli (Torino, 1660 ca. – Viterbo, 1723), eccellente quadraturista e convinto sostenitore di quel Barocco condotto ai più  virtuosistici risultati pittorici dal suo maestro.

Colli, dunque, introduce a Viterbo un modello decorativo strettamente legato alla maniera di Andrea Pozzo. Pur confermandosi particolarmente portato nell’orchestrazione di architetture fittizie di sicuro e originale effetto, il torinese diventato viterbese risulta tuttavia meno convincente come figurista: i suoi angeli, i suoi putti e i suoi santi ricalcano positure un po’ stereotipate nonché prive di quell’energia vitale che sembra invece irrorarsi nei finti marmi, nelle movimentate modanature, nei capitelli dorati, in quel connubio di architettura e volta celestiale pittoricamente risolto per stupire ed emotivamente sollecitare i partecipanti alla celebrazione eucaristica.

L’opera del Colli in Santa Caterina non sarà di certo ignorata dagli artisti viterbesi che, proprio ispirandosi ad essa, una quarantina d’anni dopo decorano a fresco il soffitto e parte delle pareti in San Giovanni Battista del Gonfalone. Ma questa è un’altra storia. Ciò che dovrebbe oggi essere discussa è invece la questione riguardante la libera fruizione dell’intero apparato decorativo dell’ex chiesa di Santa Caterina, di fatto quotidianamente accessibile soltanto a coloro che studiano o lavorano al Ruffini. D’altro canto, non meno attuale è la necessità di attuare interventi di adeguata manutenzione e restauro di quanto la medesima chiesa racchiude al fine di poter preservare dal deterioramento, già in atto, un vero e proprio gioiellino barocco della città di Viterbo.

 

Per saperne di più sull’ex chiesa di Santa Caterina, si veda Fernando Massa, La chiesa di Santa Caterina a Viterbo, Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato “Guglielmo Marconi”, Viterbo, 2007, pp. 20, con ill. a colori. Per approfondire il tema degli affreschi di Antonio Colli, oggetto del presente articolo, può essere altresì utile la tesi di specializzazione scritta da Antonio Donati e depositata presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Siena (A.A. 2003-2004) col seguente titolo: Gli affreschi di Antonio Colli nella chiesa di Santa Caterina a Viterbo.

 

Pietro Boschi, storico e critico d’arte laureato in Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali presso l’Università della Tuscia. Svolge attività di consulenza storico-artistica per il Consorzio delle Biblioteche di Viterbo. Insegna discipline storico-artistiche all’ABAV – Accademia di Belle Arti Lorenzo da Viterbo.

 

Nella foto, affreschi dell’ex chiesa di Santa Caterina, particolare.

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