Tuscia in pillole. Riso “Avaro”  

di Vincenzo Ceniti*

A Viterbo, nel primo Ottocento, qualcuno si mise in testa di fare i soldi col riso. Tentativo ardito   per far quadrare i conti di alcune famiglie di allora credulone e contadine, ma fallito. “Cos’ha Ferrara più di noi? “ si diceva con enfasi e poca convinzione. L’immagine della città del riso e la sua fortuna incoraggiò alcuni proseliti ad introdurre la coltura a conferma di quanto le nostre genti vivessero in uno stato di arretratezza culturale, diffusa del resto in gran parte dello Stato Pontificio. Per la povera gente impegnata a mettere insieme il pranzo con la cena ogni novità era speranza e meritevole perciò di essere incoraggiata.

Solo che lassù, nella “Bassa”,  c’erano il Po, i terreni sotto il livello del mare, un efficiente sistema di canali e ragazze più sode e robuste di quelle nostrane, come ci fece vedere Giuseppe De Santis nel film “Riso amaro” (1949) con una prosperosa Silvana Mangano, le cui cosce impreziosite da due calze  nere e sdrucite,  fecero la fortuna del produttore e il giro del mondo.

“Noi – dicevano i più convinti – abbiamo le sorgenti sulfuree del Bulicame (cui i viterbesi ricorrono sempre in casa di bisogno) che potrebbero rendere possibile e produttiva questa coltivazione”.  Cosicché le prime risaie sorsero proprio nei pressi delle polle ipertermali..

Non solo. Ci furono anche alcuni tentativi similari nei dintorni, come a Ronciglione e Tuscania (l’allora Toscanella). Nessun paragone comunque con l’estensione delle risaie ferraresi e con le mondine di quelle parti. Ci si doveva accontentare  di ragazze meno dotate e meno seducenti. Dalle terre del Bulicame si passò  a quelle comprese, sempre a Viterbo, tra Ponte Sodo e il Signorino conosciute come le campagne del Risiere. Nome premonitore? No, poiché il toponimo non c’entrava col riso, come molti credevano, ma col torrente Riosiri che scorre da quelle parti, dedicato al dio degli Inferi, Osiride, considerato dalla leggenda uno dei fondatori della città di Viterbo.

Fatto sta che  alcuni “arruffapopolo” in cerca di soldi (c’erano anche allora) redassero un progetto di sviluppo all’insegna dello slogan “Viva il riso del Risiere” che fece subito presa. Ci sperava anche il gestore dell’allora ristorante-locanda dell’Angelo in piazza delle Erbe a Viterbo che già pensava alla ricetta del  “Risotto alla viterbese”.

Ma subito le prime delusioni. I costi di produzione erano troppo alti e portavano il prezzo al consumo a 5 baiocchi la libbra, contro i 4 del riso di Ferrara. Dunque niente vendita sui mercati nazionali.  E poi le invidie che non mancano mai. I detrattori (ci sono sempre) o quelli esclusi dal potenziale affare cominciarono a mettere  in giro notizie allarmanti su presunte malattie che si sarebbero diffuse nelle zone paludose delle risaie. Il progetto si bloccò con grande delusione dei proprietari dei terreni che già si aspettavano lucrosi guadagni. Addirittura si diceva che Viterbo era diventata una città insalubre e invivibile.

Anche le risaie di Ronciglione e Tuscania subirono pesanti contraccolpi.  Gli  amministratori comunali, che avevano creduto nell’affare, si trovarono  costretti a richiedere il parere di esperti. Come si legge in un documento, vennero interpellati il prof. Giuseppe Matthey (medico primario dell’Ospedale di Viterbo) ed il nostro Francesco Orioli (docente tra l’altro al  Liceo di Viterbo) sulla questione “se le risaie in generale, e quelle in particolare introdotte, o da introdursi nelle campagne viterbesi, siano indifferenti, o pregiudizievoli all’umana salute”. Verdetto senza scampo “Le risaie sono nocive per la salute pubblica e devono essere tenute lontane”.

La conclusione è amara e ci riporta ai giorni d’oggi in cui  gente senza scrupoli avvia trasformazioni ambientali per il proprio interesse infischiandosi della salute pubblica. Proprio come accadde  al Risiere di Viterbo.

 

L’autore*

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

 

Nella foto, Silvana Mangano nel film “Riso amaro”.

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