Tuscia in pillole. Pillole assortite

di Vincenzo Ceniti

gradoli confraternita

Confrati       

Provate ad immaginare la Tuscia Viterbese  nel XVI o XVII secolo. Contadini e bifolchi a sgobbare nelle  campagne per poco più di trenta scudi all’anno. Ragazze povere impossibilitate a sposarsi perché prive di dote.  Carcerati senza un soldo per pagarsi la retta (perché allora il soggiorno carcerario si pagava) a marcire in tuguri, a volte senza cibo. Ammalati abbandonati  o ricoverati in ospizi “fai da te” se gravemente feriti. Poveri senza un ricovero e un pasto caldo. Cadaveri di morti ammazzati o per altra causa lasciati nelle piazze in attesa di sepoltura. Paura dannata dell’inferno da parte di tutti e quindi bisognevoli di conforti religiosi. Chi provvedeva a tutto questo in assenza di ambulatori, pronto soccorso, assistenti sociali, cimiteri, penitenziari, mense Caritas  e altro? Ci pensavano loro, i “Fratelli”, riuniti in Confraternite  per collaborare in presa diretta con vescovi, preti, sagrestani tuttofare e parrocchie. Facevano gruppo e sistema in una società dove  l’unica occasione di  stare insieme era l’osteria davanti ad un tavolo di tressette. Si autotassavano e mettevano a disposizione degli altri umanità, quattrini, preghiere e lavoro. Nei tempi andati ce n’erano molte nel Viterbese di queste aggregazioni parareligiose, spesso in numero superiore alle stesse parrocchie ed hanno prosperato o meno  negli anni a seconda dell’onestà di  chi l’amministrava, degli editti che ne limitavano l’attività (vedi Napoleone), dei rapporti con la Chiesa cui si sono sempre affiancate. Ed oggi? Cambiano le modalità, i destinatari, i mezzi di soccorso, ma sono sempre lì, sul “pezzo”, con gli stessi paramenti, gli stessi rituali, la stessa voglia di fare il bene del prossimo, a rivendicare un ruolo nel welfare. Ma quanto è difficile!

 

Guido e Diletta                                                                                                                                                

Timorati di Dio, casa e chiesa, vissuti molti anni fa (XII sec) quando la città già si chiamava Viterbo e da castrum era diventata civitas.   Si  sono amati come Cristo comanda e come si sapeva fare allora, in spirito, fedeltà, pace e  pazienza. Ma hanno amato soprattutto gli altri, tanto da trasformare la loro modesta abitazione al civico 2 di via dei Pellegrini, in ospizio per accogliere i viandanti diretti a Roma a ricevere perdoni e indulgenze.  Pensavano così di potersi guadagnare il Paradiso ed evitare le tribolazioni dell’Inferno sempre in agguato. Non solo. Nel loro testamento hanno lasciato la casa alla comunità religiosa del posto a condizione che non venisse mai cambiata la destinazione d’uso. In caso contrario  sarebbero scattate  le maledizioni di Dio, della Madonna, degli apostoli e di tutti i santi.

Armidoro      

Mite, furbastro e credulone, fisicamente gobbo. E’ “Armidoro” (rigorosamente con la“r”) alias Almidoro Costantini, classe 1884, figlio di Michele e Nazzarena Minissi, residente  a Viterbo in via del Suffragio 16, in un mini appartamento oggi abitato da extra-comunitari. Simpatico, amicone, semi analfabeta, ben voluto da tutti e soprattutto portafortuna, apparteneva a quella schiera di icone che in vari anni del Novecento hanno segnato, loro malgrado e a loro insaputa, la favola della città. A memoria ne ricordiamo altre: il conte Pela, la Caterinaccia, Alfio, Pizzeccacio, Peppe Tramontana, Peppe l’Oca, Schiggino. Ma ce ne sarebbero molte ancora. Tutte catalogate  in quell’inverosimile albo cui ancora ci aggrappiamo alla ricerca della nostra identità .

Dunque “Armidoro”. Aveva una bottega  in via Garibaldi e sbarcava il lunario costruendo piccoli oggetti in legno, sughero, carta e cartone:  lampioncini con la candela,  girelli, banderuole, aquiloni , casette per il presepio, che vendeva su una improvvisata bancarella agli angoli delle vie e delle piazzette della città, attirando la gente con una vocetta  ritmata da una cantilena imitata da molti in quella Viterbo ante guerra sonnolenta, ancora all’ombra  delle mura castellane.

Aveva sempre un caffè pagato quando entrava da Schenardi, quasi sempre ci pensava Checco Marcucci buontempone di spirito e di lignaggio, che si divertiva (insieme ad altri) a fare scherzi e sorprese al povero “Armidoro”, oggi severamente vietate e punibili per stalking.

Presto cadrò,  come voi                                                                                             Del mio paese ormai più non rammento/ che le cadenti mura/ dove s‘incurvano più leggiadre/ presso la grande Basilica/ruinata e gloriosa./ Mie dolci, mie tenere mura./Tanto simili a me che  come voi/mi sgretolo d’ora in ora,/né val pietà amicale/a salvarmi dal tempo che corrode./ Vi ho sempre ammirate./Il vostro solo aspetto/mi fu consolazione, allor che l’aria/ fatale di Maremma/compiva l’opera sua./Ma più che l’infesto clima /poteron gli atti odiosi/ di gente ignara e malvagia./Presto cadrò, come voi,/e dal borgo pagano /che voi, crollanti mura,/ben proteggeste, in antico,/che io cantai, che onorai,/non avremo una lacrima.

Alle mura del mio paese”: tra le liriche più belle di Vincenzo Cardarelli originario di Tarquinia (1887-1959). Il tempo non ci fa dimenticare gli affetti  del territorio dove siamo nati e dove abbiamo vissuto i migliori momenti. Le mura possenti che un tempo proteggevano il paese dagli attacchi dei nemici e che custodivano tesori inestimabili, si stanno sgretolando come si sgretola la vita del poeta che rimpiange quelle atmosfere che un tempo regnavano nel paese: Presto cadrà come loro e non c’è nulla che possa impedirlo.

Vincenzo Cardarelli
Vincenzo Cardarelli

 

 

Nella foto cover La Fratellanza del Purgatorio di Gradoli

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