Tuscia in pillole. Osteria a Viterbo

di Vincenzo Ceniti*

Osterie_Ph. Francesco Galli

Il grappolo d’uva era un’icona non solo dei casali di campagna, ma anche di tante osterie  lungo le piazze e i vicoli di Viterbo, deputate alle bevute, alle merende con  affettati, cacio, alici e pane casareccio, al gioco delle carte e della morra. Spesso sulla porta dell’osteria  o della cantina veniva messa una fraschetta  per indicare il “novello”, come a rinnovare  le raccomandazioni del servo Martino all’abate Defuck con il triplice Est.

 

A via Mazzini (angolo via Santa Caterina) uno di questi santuari di “facile beva”  si chiamava addirittura “Il grappolo d’oro”. Un grappolo con acini di vetro ingiallito era sistemato esternamente sulla porta d’ingresso. L’osteria di  via Isonzo, nel quartiere dei Cappuccini,  aveva invece il nome mitico di “Scoglio di Frisio”. Altre si identificavano con la via o il quartiere dove operavano: San Pietro, piazza della Morte, via San Pellegrino, via dell’Orologio Vecchio, via Cairoli, via del Pavone dove il locale era noto con il nome intrigante di “Osteria del gatto”.Motivo? L’oste, un omaccione dal volto burbero, aveva un occhio leso e ti guardava come un felino.

 

Nella piazzetta di  Pianoscarano davanti alla fontana si faceva notare la bettola di “Gigi del Bravo”. Sempre a Pianoscarano si trovavano la fraschetta di “Vorrà piovà” e quella dello Zoppo. Sulla vecchia strada per San Martino ricordiamo l’osteria “Canepina”, con pergolato esterno, oggi trasformata in uno spaccio. Alcuni locali sono addirittura indimenticabili. Pensiamo a quello dove si trovava “Giocondino” in via San Lorenzo nei primi anni del dopoguerra, quando non aveva ancora i gradi di trattoria. Vi sono state girate alcune scene del film “Il Vigile” con Alberto Sordi.

 

Qualche osteria ostentava  l’insegna “Vino e cucina”, come quella ai Cappuccini dove agivano Oscaretto e la moglie Clara. Si trovava nei pressi dell’attuale distributore in via Vicenza, allora aperta campagna, in un casaletto  avvolto da un gigantesco e profumato glicine. Negli anni Cinquanta mio padre mi obbligava ad andarci ogni sabato a riempire la  boccia. Entravo attraverso una vetrina con una grande maniglia che gli occhi umidi e severi degli avventori mi ordinavano di richiudere subito e bene. Sulla destra, dietro due trasudanti quartaroni di coccio (per il rosso e il bianco), religiosamente coperti come un calice d’altare da un panno di lino, stava lui, l’oste: basso, calvo, allegro, arguto, operoso. Anche un po’ avaro, o almeno mi sembrava tale. Con una lunga chiave apriva il cassetto del banco dove due ciotole bisunte dividevano confusamente le monete di diverso taglio.

 

Un scala di legno addossata alla parete scendeva nella sottostante cantina scavata nel tufo (chissà quando e da chi) dove se ne stavano acquattate da sempre due botti imbiancate dalla muffa sul cui ventre erano conficcate le cannelle pronte alla “beva”. Sulla volta pendevano grappoli di pomodori ricolmi di succo e un guanciale di maiale annerito dalla prolungata stagionatura.                                                          In fondo al vano osteria, al riparo di un tramezzo di legno compensato con trafori lavorati a mano, si apriva una piccola cucina preclusa agli avventori dove si muoveva la sora Clara.

 

Sul fornello a carbonella se ne stava a riposare sempre una padella o una pignatta pronte per la frittata di cipolla, la zuppa di fagioli o una tocchettata di patate. Cibi appena accennati e poco costosi (erano i tempi dell’immediato dopoguerra) che avevano però la forza  di  sprigionare odori eterni: impregnavano vestiti, sedie, mura, cappelli, capelli, tavoli, perfino i soldi e il cesso. Sui tavoli levigati e lucidi, dopotutto morbidi malgrado le strusciate che ricevevano ogni momento da mani ruvide e legnose, come lo sono gli scranni del coro di un vecchio convento, scivolavano in perfetto equilibrio, quasi danzando,  bassocci  bicchieri di vetro spesso, capienti quel tanto da contenere due abbondanti sorsate. Ma anche le carte napoletane, sdrucite e gibbose, inevitabili occasioni di insensate discussioni che si spegnevano, quasi sempre, in un rantolo umido, ingiallito dal mozzicone di toscano.

 

D’estate i tavoli si mettevano all’aperto, sotto la pergola, per le festose  merende primaverili di fave e pecorino, al suono semmai di  una stonata fisarmonica. Oscaretto avviava alla meglio improvvisati balli con qualche comare. Se il piede incappava in una zolla di terra, diceva al sonatore “Allegro il sono ché c’ho il cianco ma la buca” (Accelera il suono poiché ho il piede nella buca). O almeno così si raccontava.                                                Completavano i servizi di “accoglienza” due  campi di bocce con il solo compito di stabilire, dopo accese partite , chi doveva pagare il conto.

 

Le osterie venivano comunque considerate un luogo poco raccomandabile dove si schiamazzava e ci si ubriacava. Si sono raccolte tante storie di salutari incursioni di  mogli o promesse tali, che piombavano all’improvviso a recuperare i mariti alticci e rissosi. Sempre a proposito di vino, sentite questa. Un uomo anziano di Bagnaia venne condotto suo malgrado dal dottore  per sospetta cirrosi epatica. Il medico dopo averlo accuratamente visitato gli domandò “Ma voi bevete?”. Pronta la risposta “Per beva, bevo, ma non bevo come avrebbe da beva”. Evviva l’osteria.

Alberto Sordi
Alberto Sordi all’l’Hostaria Giocondino

 Foto cover: “Una bevuta all’osteria” di Francesco Galli

 

L’autore*

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

 

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