Tuscia in pillole. Erbe nel piatto

di Vincenzo Ceniti*

acquacotta

Benedetti contadini dei tempi andati. Saggi, diffidenti, positivi, terragni, testardi. Con le erbe spontanee e selvatiche si nutrivano e si curavano, con buona pace di noi oggi che a stento distinguiamo una foglia di alloro da una di mentuccia. Quante volte ricorrevano ad  infusi ed impiastri a base di asparago o malva (ma non solo) per fastidiose gastriti o devastanti mal di denti?

Una cosa è certa. Le erbe dei campi  hanno una straordinaria utilità antiossidante e se i nostri padri ne facevano largo consumo, vuol dire che ne conoscevano le loro qualità depurative e rinfrescanti. Dissenteria, gotta, calcoli renali, impotenza, depressione, isterismi, artriti, ulcere (l’elenco è infinito) non sono che alcune tipologie di “acciacchi” cui le erbe avrebbero dato ristoro.

Dunque “andar per erbe”, soprattutto in primavera tra i campi della Maremma o nelle forre che si incrociano tra speroni tufacei presidiati da antichi castelli, dove spuntano luppoli e asparagi selvatici, è a dir poco rigenerante. La mentuccia ai bordi dei sentieri che dipartono dalle tombe dipinte di Tarquinia, profuma il vento del mare ed evoca i ricordi di antichi lucumoni etruschi, la cui misteriosa civiltà ha cambiato la vita a molti villaggi, non solo dell’Italia centrale.

Ma la mentuccia che affiora qua e la tra le antiche pietre di Ferento, al cospetto del teatro romano e delle terme non è da meno. Ha un profumo ineguagliabile, più intenso, che ci rimanda alla “panzanella”,  pane casareccio annegato  nell’acqua fresca su cui s’adagiano scaglie di pomodoro, ricci di cipollina ed extravergine di oliva con leggere pizzicate di sale e pepe.

Eguali emozioni s’avvertono a Tuscania, lungo la valle del Marta dove scorre da sempre, con atavica pigrizia, un fiume che convoglia al mare senza fretta  le acque del lago di Bolsena. Lungo le sue rive umide, segnate a volte da intrigate vegetazioni, si trovano le erbe più singolari, come il “crescione”, il “gurgulestro” e la menta acquatica.

Ovunque ci capita di annusare  l’alloro, così “odiato” dal Carducci e così amato da Apollo, la cui nobiltà si fa prestigio nelle gloriose ghirlande messe in capo a poeti, generali, atleti e neo-laureati. Che dire della sua fragranza quando s’accosta all’anguilla del lago di Bolsena o ai fegatelli di maiale allo spiedo? A ridosso del litorale marino, facciamo la conoscenza del cardo,  regale antenato del carciofo, che, insieme alla bietola selvatica, punteggia a primavera vaste  distese di prati.

Il rosmarino non è una sorpresa, tanto è diffuso un po’ovunque, soprattutto nei terreni fronte mare. Quale simbolo di immortalità,veniva deposto accanto al faraone prima dell’ultimo sigillo tombale. Che facesse bene alla pelle ce lo conferma una delle più avvenenti favorite del re Sole, Madame de Savigné, che ne faceva buon uso anche contro la depressione, durante i lunghi inverni di Versailles.

Vale sempre la pena di raggiungere i bianchi calanchi della valle del Tevere, nel versante orientale della Tuscia Viterbese, per rivedere con nuovi sguardi – ora che è alla portata di  mezzo mondo – l’incredibile scenario di Civita di Bagnoregio, abbarbicata e malferma, su un colle di argilla franosa. Nelle trattorie del posto, con un po’ di fortuna, si possono gustare le frittelle di salvia, da abbinare ad un fresco bicchiere di bianco Est! Est!! Est!!! Nelle necropoli rupestri di Castel d’Asso, Norchia e Blera, laddove la vegetazione si fa più arida, c’è da raccogliere cipiccia e lattughella. Provate! I nostri nonni lo facevano.

Oggi si registra una riscoperta delle erbe selvatiche, tanto che in alcuni ristoranti, o tra amici, diventa un vezzo cucinare l’acquacotta con la cicoria di campo, preparare una zuppa di luppoli, una frittata di strigoli appena colti nel  prato e qualche frittella di borragine. Ci  piace, allora, gironzolare tra le bancarelle dei mercati rionali o dei negozi di primizie per sbirciare con curiosità luppoli, gurgulestri, acetoselle, crescioni, ruchette, barbe di capra, creste di gallo, agretti.  E ci fanno invidia  quelle persone, magari non più giovanissime, che sanno tutto sulle erbe di campagna, sanno scovarle e distinguerle da quelle non mangerecce, come se fossero addestrate da esperienze venute da chissà dove. Bisogna conoscere le sfumature di colore, le varianti della forma, l’intrigo delle radici, i particolari delle foglie e degli steli e metterli in relazione con l’altitudine, l’esposizione al sole, la qualità dei terreni, le temperature, perfino la forza dei venti.

 

Nella foto cover la tradizionale acquatotta

 

L’autore*

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

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