Nel Cinquecento, dopo le epurazioni di Paolo IV, molte comunità ebraiche si dovettero rifugiare nei paesi di confine nord della Tuscia viterbese, riuniti intorno a Castro. Parliamo in particolare di Pitigliano (la “Piccola Gerusalemme”), Valentano, Gradoli, Onano dove resiste ancora il ricordo dei ghetti con tanto di Sinagoghe. Quella di Pitigliano è stata restaurata ed è visitabile. “Città rifugio per le mie genti”, così nel 1587 il medico ebreo David De Pomis chiamò i piccoli centri che, posti sui confini tra le terre del Patrimonio di San Pietro e quelle toscane, accolsero nuclei di famiglie e piccole comunità giudaiche espulsi dallo Stato della Chiesa per effetto delle leggi antiebraiche. Pochi i documenti. Tra questi un atto di vendita a Canino redatto intorno alla metà del Cinquecento tra Habran di Bonaventura e Agostino Bandino per una pariglia di buoi.
Secondo un breve di Sisto V, nel 1586 venivano consentite alle comunità del posto (Acquapendente, Marta, Onano, Valentano) attività di prestito di denaro a usura e del commercio di panni e di derrate alimentari. Agli inizi del XVII sec. rabbi della Sinagoga di Castro era tale Simone Narni. Si ha notizia che in quegli anni alcuni medici ebrei avevano la condotta nelle città rifugio dell’Alta Tuscia. Nel portico del palazzo dell’Hostaria della distrutta città di Castro si trovavano una decina di botteghe della comunità ebraica, sia tessili che alimentari.
Ebrei anche a Viterbo che occupavano le zone intorno a piazza Padella (oggi via Romanelli), via San Lorenzo (nei pressi della chiesa di San Biagio si trovava una sinagoga) e via Valle Piatta. Erano medici, commercianti e piccoli banchieri. Una modesta comunità, ma piuttosto diffusa che nella vita quotidiana contribuì ad allontanare pregiudizi ed esclusioni. In seguito alla bolla Cum nimis absurdum (1555), gli ebrei furono espulsi dalla contrada S. Biagio e segregati in un ghetto nella zona di Valle Piatta dove fu istituita una seconda Sinagoga.
Presso il Museo Civico di Viterbo è custodita una epigrafe con iscrizione ebraica posta sulla tomba di un giovane di sette anni, tale Ruben figlio di Netanel Chaim morto nel 1401. Il reperto proviene da Poggio Giudio, fuori Porta Faul.
Già in precedenza, nel 1313, il notaio Fardo di Ugolino fondò a Viterbo un’istituzione per alloggiarvi gli ebrei convertiti con uomini e donne sistemati separatamente. La chiesetta di Santa Maria della Salute in via Ascenzi fa parte di quelle strutture di accoglienza. Una delle tante polle di acque ipertermali, ubicata fuori Porta Faul, veniva detta il “Bagno dei Giudei”.
Sta di fatto che gli ebrei non hanno mai avuto pace, dal tempo della Roma classica, quando per pagare l’onta della crocifissione di Cristo, furono costretti ad “errare” nel mondo senza patria. Ecco perché le loro attenzioni, come annotano gli storici, si sono rivolte al “commercio” del denaro, piuttosto che ai beni immobili (case, vigne, terreni) riservati per natura a popolazioni stanziali. Gli epiteti affibbiati loro e ingigantiti dalla storia sono sconcertanti: usurai, blasfemi, libidinosi e via discorrendo. Ma anche buongustai se consideriamo i carciofi alla giudia. A cucinarli è semplice. Da preferire le “mammole” che, dopo averle sbucciate per togliere la parte più dura e lavate accuratamente, vanno immerse in abbondante olio bollente. Si passano poi sulla carta-paglia e al momento di servirle si tornano a friggerle per qualche minuto.
Fa riflettere – racconta Bonafede Mancini, studioso dell’ebraismo nel Viterbese – il gesto di un fattore del principe di Brazzà, tale Fortunato Sonno di Piansano, che dopo le leggi razziali del 1939 protesse, insieme ad altri contadini del posto, l’identità di una famiglia ebrea fuoriuscita da Pitigliano che si era rifugiata in una grotta presso il laghetto di Mezzano. Per questo gesto umanitario, il nome di Fortunato Sonno è scritto nel “Muro dei Giusti” di Gerusalemme.
Qualche particolare sull’abbigliamento. Anche a Viterbo – commenta Elisabetta Gnignera, storica del costume – venne imposto agli ebrei un segno distintivo, un tondo rosso per gli uomini da portare sulle vesti e un velo giallo a coprire la testa per le donne. Ammende severe, non solo pecuniarie, per i contravventori. La pena minacciata per la donna sprovvista di velo giallo – aggiunge Elisabetta Gnignera – non sembra avere l’uguale in Italia: consisteva nella licenza data a chiunque di spogliarla”. Amen.
Nella foto cover: la zona alle porte di Viterbo dove si trovava il Bagno dei Giudei
L’autore*
Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.