Tuscia in pillole. Caterinaccia/2 “Miseria senza guinzaglio”

di Vincenzo Ceniti*

La Caterinaccia con il suo cane Raul

A guerra finita Caterina si stabilì insieme ad Alfio in una stamberga semi diroccata in fondo a via San Clemente, dotata anche di un camino dove il figlio si vantava di preparare le salsicce alla brace. Molto meglio dell’ospizio, più volte offertole dal Comune, che le avrebbe però negato la liberta di muoversi senza orari, cullare una bambola raccattata magari in un mondezzaio, alzarsi di buonora a respirare l’aria fresca, girovagare per i campi a cogliere violette, inveire contro tutti e accudire ai suoi cani che le gironzolavano sempre intorno.

L’ultimo della serie si chiamava Raul (da lei pronunciato Ravele), un randagio bianco e marrone di provata fedeltà. Il primo boccone era sempre per lui. Quando era ricoverata all’Ospedale Grande degli Infermi, Raoul l’aspettò raggomitolato davanti al portone d’ingresso e rimase lì finché non fu dimessa. Si racconta che Caterina si affacciasse alla finestra della camerata per chiamare il cane e buttargli giù un boccone. Aveva tanto familiarizzato con le donne della cucina che, dopo l’uscita dall’ospedale, ritornava spesso  da loro per un pasto caldo.

C’è anche da ricordare le sue presenze come comparsa in alcuni film girati a Viterbo con il cestino-pranzo assicurato. Aveva un volto così segnato dalle rughe che non poteva passare inosservato a registi come Blasetti e Lattuada. Appare dunque  in “Vecchia guardia” (1934) e nella “Mandragola” (1965). Suo figlio Alfio venne invece inquadrato nel film “La cena delle beffe” con Amedeo Nazzari (1942).                    

Caterina di giorno girovagava per le vie di Viterbo ad aiutare Alfio in vari lavoretti e servizi come quello di prelevare i cartoni presso abitazioni, botteghe o al Luna Park (le Giostre come venivano chiamate a Viterbo per le feste di Santa Rosa) che legava maldestramente su un carrettino sgangherato per rivendere a due soldi. Ma quelli bastavano.

Di frequente percorreva Corso Italia dove sostava davanti alle vetrine di qualche negozio per raccattare una manciata di spiccioli. Di domenica all’uscita della Messa nella chiesa del Suffragio donava alla signore un mazzetto delle sue violette accuratamente composto per riceverne quattro soldi. Mai chiesta la carità. Aldo Pennello, che è stato uno dei negozianti più storici del Corso, mi racconta che un giorno la vide con un grande cappello di paglia. “Me lo ha regalato Alberto Magoni” (titolare del negozio accanto al Gran Caffè Schenardi). Per non essere da meno Aldo le donò un fiocco rosso da porre sul cappello. Poi la fece specchiare ed essa esclamò “E’ la prima volta che mi vedo”.

La ricordo con il suo passo dondolante e nervoso, il viso incartapecorito, due occhi scorbutici e intelligenti, un paio di stivali da uomo, una veste lunga e sdrucita,  una pellegrina sulle spalle, un cappellaccio informe e il cane tenuto a bada con una cordicella. Dubito che portasse sempre le mutande. Qualcuno mi ha riferito di averla vista una volta accovacciata a Porta della Verità mentre accudiva ai suoi bisogni. Per i ragazzini era una sorta di strega che faceva paura. “Quando andavamo a piedi al Bulicame – mi hanno raccontato alcuni – lungo la stradina che partiva da porta Faul, davanti alla sua grotta acceleravamo il passo per la paura”.

Caterina si sposò in seconde nozze con Enrico Duri nel 1950 che conobbe nell’ospizio di San Carluccio a Viterbo. Morì il 27 dicembre 1974 (mezzo secolo fa) ed è sepolta nel cimitero di San Lazzaro. Ma fece in tempo a salutare per l’ultima volta il suo angelo custode Primorè. 

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La tomba della Caterinaccia al cimitero S. Lazzaro di Viterbo

 

Il figlio Alfio, altra figura caratteristica della Viterbo di ieri, aveva per la madre una venerazione religiosa: gli aveva trasmesso gli autentici valori della vita e, soprattutto, la dignità di uomo libero. Ha condiviso con lei una vita di gioie e tormenti e le ha dedicato con disarmante spontaneità questa poesia.

Madre

“O madre che mi tenesti tra le braccia/e pargoletto mi allevasti/non so con quale affetto ricambiarti./Mi ricordo le ore liete che con te ho passato/ora non ci sei più/e sono rimasto solo e rattristato/ma penso sempre a te, o mamma mia./Quando vengo al cimitero/e sulla tomba tua metto un fiore/mi vien da piangere quando ti vedo sulla fotografia./Al mondo ci sono tanti amici che ti vonno bene/ma di mamma ce n’è una sola”.

 

Anche Salvatore Di Pietro, poeta e scrittore dialettale originario della Sicilia ma cittadino viterbese, le dedicò una lirica

La Caterina

“Mulinello di cenci/al risucchio d’antica carità,/che l’accoglieva dentro i magazzini,/nel Corso di Viterbo: La Caterina./ambulante ribalta/ il suo carrettino,/con la vita in un mondo di cartone/sopra raggi di legno per sole;/bardatura di fiocchi di capelli/e seni trainanti,/appesi a quella corda pettorale:/ La Caterina./mani a fratte di verde Palanzana,/tese ad offrire violette e more,/e pungenti risposte a certo sdegno,/per le stimmate impresse dal lavoro,/sulle sue palme aperte e senza dolo:/ La Caterina./E bicchieri di –corniole rosse -/la sua vetrina/di rubini e coralli,/fatta di tramontana e –gojerie -/sul sagrato delle Chiese, del Corso:/La Caterina./Miseria senza guinzaglio,/a spartire col proprio cane amico,/letto e pane in quella fredda grotta,/come occhiaia di teschio,/dove non vide mai il Cristo nascere:/ La Caterina./ Lei… mulinello di cenci,/filosofia di Claon senza trucco,/in un Circo di Maschere”.

 

Nella foto cover, la Caterinaccia col suo cane Raul

 

L’autore*  

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

 

 

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