Due giornate tra i segreti della Viterbo del 600 e il monastero di Santa Rosa. Un affresco tra storia, economia, politica, arte e condizione femminile di quegli anni è quanto emerso dalle relazioni dei venti studiosi riuniti nel terzo convegno organizzato dalla nascita del Centro Studi Santa Rosa.
UN MONASTERO, UNA CITTÀ. SANTA ROSA E VITERBO NEL XVII SECOLO. «Sin dal titolo, il convegno vorrebbe indicare la prospettiva di lavoro che ci siamo dati – spiega Attilio Bartoli Langeli – Santa Rosa è un fatto del duecento, ma vogliamo andare avanti nel tempo e occuparci di tutto quello che è intercorso da quel fatto duecentesco all’oggi. Il Centro studi ha come oggetto specifico la valorizzazione del monastero, in quanto fatto storico, del suo archivio e della sua biblioteca questi due ambiti non chiudono lo studio in una prospettiva cronologica stretta e in un solo oggetto specifico come il monastero, quello che ci sta a cuore è l’allargamento della ricerca, sia cronologica sia spaziale, perché dal monastero vogliamo andare alla città di Viterbo e da qui alla regione storica della Tuscia. Con questi allargamenti di prospettiva vorremmo contribuire alla fondazione e sviluppo della ricerca storica su Viterbo e sulla Tuscia».
Dall’intervento del professor Claudio Canonici, primo tra i relatori, esce il quadro di una provincia con una Viterbo che nel corso del 600 ha perso sempre più territori con un conseguente depauperamento delle risorse, e con un indebitamento sempre maggiore nei confronti dello Stato. Quando il Ducato di Castro viene sottratto alla dogana delle erbe, diminuiscono i cespiti di entrata per la provincia. La città perse nel tempo molti dei privilegi che aveva ottenuto nell’atto della soggezione al governo pontificio. Non ha più un giudice cittadino estratto dalla propria elite, perde il controllo del proprio bilancio, non può più amministrare la giustizia secondo le rubriche del proprio statuto. Viterbo segue il declino della provincia e comincia a trasformarsi in una città di una provincia pontificia non importante per il potere centrale. Se la città declina dal punto di vista economico, di visibilità nello stato, quello che rimane invariato per tutta l’età moderna arrivando sino al dominio napoleonico è il controllo rigido della sua classe dirigente, della sua nobiltà civica, sulle strutture del governo della municipalità e sulla gestione delle risorse economiche che lo stato aveva lasciato alla città stessa. E’ impressionante la continuità delle famiglie che dal 500 siedono nei consessi dei governi cittadini. Sono sempre gli stessi nomi, sempre gli stessi ambiti di interessi. Quando il governo dell’impero napoleonico nel 1809 arriv a viterbo e inizia la trasformazione del dipartimento di Roma, tenterà di sottrarre il controllo delle risorse locali e del governo della città a questo numero dominante , ma anche le forze napoleoniche non riusciranno a statalizzare il controllo del territorio da parte di questa elite dominante. Quello che resta però inalterato è la sua Chiesa locale.
La professoressa Marina Caffiero ci spiega come il contesto del viterbese presenta caratteri specifici (era la provincia granaria dello Stato) perché dominava un assetto produttivo e fondiario meno arretrato di quello che si riscontrava nel resto del Lazio caratterizzato da una trasformazione in senso più moderno dei rapporti di produzione. Era in ascesa la proprietà laica con il controllo del notabilato locale.
L’intera provincia funzionava come annona di Roma, la specializzazione agricola e pastorale attirava mano d’opera. Portava fenomeni migratori con arrivo di lavatori poveri bisognosi di assistenza. Gruppi di contadini che andavano sottoposti a stretto controllo. Da qui moltiplicarsi interventi per disciplinare questa realtà. Si assiste nel 600 a una ripresa della vita religiosa e a una sua decisa torsione in senso popolare e femminile della religiosità. Fu ritenuto importante una missione di istruzione rivolta alle ragazze. Si sentì così l’esigenza di istituti laicali volti all’istruzione: istituti Maestre Pie Venerini Filippini , chiamate così dal nome delle due fondatrici .
Rosa Venerini di Viterbo fu la prima a portare avanti il progetto di creare scuole pubbliche gratuite per ragazze del popolo, fuori dai monasteri e tenute da maestre laiche. Le maestre formarono una congregazione con vita comune, abito e regole, priva di voti, senza clausura, in cui le maestre restavano sempre libere di andarsene, soprattutto senza bisogno della dote, permetteva l’entrata nella vita religiosa di un ceto sociale assai inferiore rispetto lle monache aristocratiche dei monasteri.
Nel 1685 Rosa Venerini aprì la prima scuola pubblica. Il vescovo della diocesi di Montefiascone e Corneto la invitò a istituire nuove scuole. Solo dopo furono aperte scuole anche a Roma.
Questa nuova realtà rispondeva alla domanda femminile crescente di inserimento nella vita istituzionale religiosa proponendo un modello attivo, in contrasto con il modello aristocratico restrittivo e claustrale.
Grazie all’intervento del dottor Luciano Osbat si è avuta una descrizione dettagliata della condizione economica dell’epoca, su come Proprietari terrieri scaricassero su altri ceti il peso delle imposizioni fiscali, e come fosse difficile per i contadini mantenere una famiglia con 16 baiocchi al giorno. Dalle visite apostoliche tratteggiate da Giorgio Felini alle visite pastorali nell’archivio rosiano trattate dal dottor Filippo Sedda. Interessantissimo l’intervento della professoressa Gilda Nicolai sull’archivi, tra segreti e dispersioni.
Dell’arte ha parlato il professor Massimo Bonelli. Una relazione storica artistica viterbese nella prima metà del 600 che ha focalizzato qual è la prima opera artistica che denota un cambio di linguaggio per poi lasciare spazio all’analisi dei tre o quattro tra i cantieri più importanti della prima metà del 600 a Viterbo, sottolineando la dialettica tra artisti viterbesi che si trovano ad operare prevalentemente fuori Viterbo, anche con carriere gloriose, e artisti che operano invece nella città.
La professoressa Eleonora Rava invece ha anticipato quella che sarà la pubblicazione si un testo su Le memorie segrete: un testo in cerca di autore. Un manoscritto conservato nell’archivio della chiesa del Monastero di Santa Rosa. Un codice cartaceo con coperta in pergamena composto da 6 fascicoli, ciascuno di 7 fogli 14 carte per un totale di 74 carte, composto di due parti: la prima occupata dal racconto di un secolo di storia del monastero, mentre la seconda dedicata all’ inventario dei centri discosti dal monastero. La Rava ha raccontato come il manoscritto le fu mostrato in gran segreto perché una parte del contenuto è stato considerato scandaloso per l’onore del monastero e pertanto tenuto nascosto a tutti.
Il convegno visto le attuali restrizioni per il Covid si è svolto tutto in modalità telematica. Le dirette delle intere giornate sono a disposizione nella pagina Facebook del Centro Studi. Una preziosa occasione per una passeggiata nella Storia, guidati da eminenti relatori, per entrare a contatto con le radici e i segreti della terra viterbese
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