Nello e Lorenzo Celestini: la coppia più S. Rosa del mondo

di Arnaldo Sassi

Se chiedessero a un qualsiasi viterbese chi ha fatto la storia della Macchina di Santa Rosa dal dopoguerra all’inizio del terzo millennio, la risposta non può essere che una. E porta due nomi e un solo cognome: Nello e Lorenzo Celestini. Padre e figlio. Accomunati da una passione che hanno saputo mostrare nel corso degli anni, unita a un carisma e a una personalità ineguagliabili. Nello se n’è andato nel 2015, a 90 anni. Lorenzo invece, che sta per compierne 70, è ancora una delle figure simboliche del Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa. Anche quest’anno, in qualità di presidente emerito, sfilerà con tanto di divisa davanti alla Macchina. Una simbiosi, quella tra lui e il campanile che cammina, che l’ha accompagnato praticamente per tutta la sua vita.

“E pensare – esordisce – che non ho nessun ricordo di quando ero piccolo. Eppure mio padre aveva cominciato a portare la Macchina nel 1946, l’anno in cui partì da piazza Fontana Grande perché Viterbo era stata bombardata. Era la Macchina di Papini”.

E allora quando ti sei avvicinato (con Lorenzo ci diamo del tu, siamo stati anche compagni di classe alle scuole medie) per la prima volta a Santa Rosa?

“Complice è stata la grande amicizia che c’era tra mio padre e Peppe Zucchi, il costruttore del Volo d’Angeli. Nel 1967, quando Zucchi vinse il concorso, cominciarono a vedersi quasi tutti i giorni. E nacque anche un’amicizia di famiglia, con mogli e figli. E poi, abitavamo vicini, tutti e due al Pilastro”.

Che ricordi hai di quell’anno?

“Andai a vedere la Macchina alla partenza, a San Sisto. Mio padre, che era stato Facchino fino al 1966, quell’anno era guida, perché la Macchina la conduceva il costruttore. Dunque, vidi la partenza insieme ad alcuni miei amici e poi andammo tutti in un club che avevamo in via delle Piagge, una traversa di via Cairoli. Stavamo ascoltando un po’ di musica, quando arrivò uno trafelato che cominciò a urlare che la Macchina s’era fermata in via Cavour perché i Facchini non ce la facevano. Scappammo via di corsa. Cercando di dirigerci in piazza del Comune, ma non ci riuscimmo. C’era troppa calca. E io ero molto preoccupato perché sapevo che lì c’era mio padre”.

E allora che hai fatto?

“Andai a casa e, dopo un po’, arrivò anche lui. Era dispiaciuto, rammaricato, distrutto. Parlò poco e niente e andammo tutti a dormire con la tristezza nel cuore”.

L’anno successivo fu terribile, sia per Zucchi che per tuo padre…

“Vero. Anche perché Zucchi ormai lo considerava il suo alter ego. Lo chiamava centinaia di volte. ‘Nelloooo! Nelloooooo!!!’ con quel suo vocione stentoreo. Da lì, e da tutti i problemi che c’erano, iniziò il mio vero interessamento verso la Macchina. Cominciai a seguire mio padre e, quasi inconsciamente, mi trovai coinvolto nell’organizzazione del Trasporto per l’anno successivo”.

Quando è stato il tuo debutto?

“Nel 1973. Ma nei due anni precedenti, sempre per volere di Peppe Zucchi, avevo fatto l’addetto al trasporto. Mi ricordo che portavo l’estintore. Però questo incarico mi dette modo di conoscere gli altri Facchini, di capire come funzionavano i meccanismi e di appassionarmi sempre più all’evento”.

La prima prova?

“Nel 1973, appunto. Facevo il militare alla Sas e, sapendo che in quei giorni c’erano le prove, andai alla chiesa della Pace. Mi misi in fondo, a parlare con qualche amico. Ma a un certo punto Zucchi mi chiamò: ‘Lorenzooo!!! La voi fa’ ‘sta prova?’. Rimasi di stucco, imbarazzato. Poi accettai. E feci i miei tre giri con la cassetta sulle spalle in divisa da militare. La cosa finì lì. Nessuno mi disse niente. Nemmeno mio padre. Che rimase in silenzio sull’argomento pure la sera a cena”.

E poi?

“Una settimana dopo, appena uscito di caserma, andai a casa a cambiarmi e trovai mia madre sulla porta con un volto stravolto. ‘Io ho già discusso col tu’ padre. Dice che Peppe te vo’ mette sotto la Macchina. Ma che hai fatto la prova?’. Risposi di sì. E allora giù. ‘Io quello c’ho passato col tu’ padre nun lo vojo passà pure co’ te!’. La sera a cena mio padre mi chiese: ‘T’ha detto niente tu’ madre?’. Risposi di sì. ‘Io non ho fatto nessuna forzatura. Allora, che voi fa’?’. Ci pensai tre secondi, poi dissi: ‘Ci sto’. E così quell’anno cominciò la mia avventura”.

C’era ancora il Volo d’Angeli…

“Certo. E fui messo subito a spalletta sinistra, in seconda fila. Davanti a me c’era Fausto Scapecchi, mio cugino. Dietro un altro grande amico, Giuseppe Serafini. E a fianco, alle spallette aggiuntive, il dottor Vergati e un certo Silvio Ascenzi. Dopo quattro anni di spalletta, passai a ciuffo. In prima fila perché ero alto”.

Poi, nel 1986, accadde qualcosa che rivoluzionò il Trasporto…

“Sì, sulla salita la Macchina rischiò di cadere. E io ho sempre pensato che la mano di Santa Rosa ha fatto in modo che non cadesse. Lì, prese le redini mio padre: dette un nuovo ‘Sollevate e fermi’ e fece in modo che la Macchina arrivasse indenne nella sua area di sosta definitiva. L’anno successivo – mi ricordo che stavo a pranzo a casa dei miei, dove poi effettuavo la vestizione – arrivò un telegramma del sindaco Marcoccia che ordinava che a guidare la Macchina non dovesse essere più il costruttore, ma il Capofacchino. Cioè, mio padre. Fu un bel riconoscimento per tutto il Sodalizio, ma soprattutto per Nello”.

Poi Capofacchino ci sei diventato tu…

“Nel 1992. Io, in verità, non volevo lasciare il mio posto di ciuffo, perché mi piaceva portare la Macchina. Però mio padre non era più tanto giovane e non poteva tenere tutte e due le cariche. Così decisi di candidarmi e fui eletto con una messe di voti. L’ho fatto per sei anni”.

Però, nel 1999 sono cominciati gli screzi…

“Sì, perché fui in un certo senso costretto a candidarmi da presidente. Ma mio padre non voleva lasciare. Lui era attaccatissimo a Santa Rosa e al Sodalizio. E la prese male. Ma le cose stavano cambiando. Le mentalità stavano cambiando. E c’era bisogno di rinnovare. Al mio primo discorso da presidente dissi che ormai eravamo tutti abituati a dire ‘Tanto c’è Nello’. Ma che Nello ci sarebbe stato ancora, insieme a tutti noi. Fu nominato presidente emerito”.

Per quanti anni sei stato presidente?

“Sei anni. Fino al 2003”.

E poi che è successo?

“Che ci si è messa di mezzo la politica. Io nel 2004 non volevo più ricandidarmi, ma fui convinto a farlo. Ma subentrarono le ‘grandi manovre’ e così non fui rieletto”.

Beh, tu e tuo padre eravate politicamente ‘targati’. Lo sapevano tutti…

“Sì, ma fino a quel periodo non c’erano stati problemi. Anzi un giorno, Marcello Meroi, che io avevo conosciuto solo quando era diventato sindaco, mi confessò che anche lui aveva subito qualche pressione. Ma che le aveva respinte al mittente. Dopo invece…”.

Vabbé, meglio sorvolare. Tanto, se si va a riguardare la storia di quel periodo, si può capire…

“Sì, ma in quel periodo ebbi problemi anche come dipendente comunale. Io lavoravo all’ex Sauv”.

E col Sodalizio come andò?

“Fui letteralmente cacciato dal direttivo che era stato appena eletto. Addirittura feci domanda per essere ammesso come addetto al Trasporto e fu respinta”.

Quanto è durato l’esilio?

“Fino al 2007, quando l’allora presidente Roberto Capoccioni fu costretto a dare le dimissioni. Mi ricordo che ci furono problemi anche con i bilanci, che i sindaci non vollero firmare”.

E che successe?

“Che il nuovo consiglio decise di nominare anche me, come mio padre, presidente emerito”.

Una bella soddisfazione…

“Certo. Ma la soddisfazione più grande è che ancora oggi io ci sono. Ma tutti quelli che mi hanno fatto la guerra non ci sono più. Tutti spariti nel nulla”.

E quest’anno sfilerai di nuovo davanti alla Macchina…

“Ti faccio una confessione: quando mi ha telefonato Massimo Mecarini per darmi la notizia ero in vacanza in montagna, perché era fine agosto. Mi sono messo a piangere.

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