Nella Viterbo del XIII° secolo i “bagnajuoli”erano i custodi dei Bagni del Bulicame

di Luciano Costantini

Viterbo nel tredicesimo secolo era centro di assoluta rilevanza: politica, commerciale, religiosa. Non per niente fu la sede ufficiale di nove pontefici. Una città di poche migliaia di abitanti (tanti comunque per i tempi) eppure viva, laboriosa, dinamica. Popolazione in larghissima parte impegnata nel lavoro dei campi, ma anche nelle botteghe, negli empori, nei laboratori d’arte. Un crogiolo infinito di attività e di mestieri: alcuni dei quali si sono evoluti con i secoli, quando non sono addirittura scomparsi. Tra questi ultimi, per esempio, i vasai: a loro, diversamente da tutti i comuni mortali, era permesso di restare a lavoro anche dopo il fatidico suono della campana vespertina che richiamava tutti a casa. Che fossero in strada, in bottega, in osteria. I vasai, invece, potevano restare a impastare e cuocere nelle loro fornaci, purché non appiccassero il fuoco di notte in quanto il fumo avrebbe potuto offendere l’olfatto, la vista, l’udito e dunque il meritato riposo dei vicini. Lo Statuto comunale teneva in gran conto le esigenze della popolazione. I lanaiuoli potevano, per esempio, costruire delle conserve di acqua (meglio conosciute come “leghe”) per pulire i tessuti, ma dovevano farlo lungo il fiume Urcionio, esclusivamente nel tratto tra Porta Sonza (più o meno all’inizio dell’attuale Corso Italia) e il Ponte Tremoli (tra via Cairoli e la chiesa degli Almadiani, demolito nella prima metà del secolo scorso). Ma attenzione, l’uso dell’acqua non doveva penalizzare il funzionamento dei molini che sorgevano lungo lo stesso Urcionio. La norma era estesa anche ai calzolai. Grande attenzione, dunque, a razionalizzare e garantire il sistema idrico, ma anche a tutelare quello acustico, se è vero che le botteghe dei calderai, in generale dei fabbri e dei meccanici, erano ubicate esclusivamente a Pianoscarano o lungo via della Cava, tra via San Luca e piazza della Rocca. Ed a proposito di fabbri e chiavari. Questi dovevano sottostare anche ad altre regole inderogabili: niente nuove o doppie chiavi se chi le richiedesse non portasse con sé la serratura. E neppure chiavi ai figli e ai servi più fedeli. Meglio non fidarsi, neppure in famiglia, perché ladri e scassinatori non sono mai mancati, in tutti i tempi.

Per quanto l’igiene non fosse una priorità assoluta lungo le piazze e le vie cittadine, vigevano regole precise almeno per gli esercizi che oggi si chiamerebbero di “generi alimentari”. Ai macellai (beccai) era vietato uccidere bovini durante le ore notturne. Operazione che doveva avvenire solo ed esclusivamente alla luce del sole e visibile a tutti per evitare possibili sospetti su provenienza (furtiva?) o su eventuale  malattia della bestia da macellare. Evidentemente era anche proibito mettere in commercio carni avariate o truffare i clienti sulla qualità delle stesse. Particolare attenzione era rivolta alla vendita del pesce: orate, tinche, anguille, gamberi, erano messi in bella mostra su apposite pietre dinanzi ai punti vendita situati lungo via Pietra del Pesce, la stradina che da piazza della Morte conduce a San Carluccio, all’ingresso del quartiere di San Pellegrino. Il mercato del pesce era proprio lì. La targa stradale resiste ancora oggi, ma le botteghe sono scomparse. Particolare curioso: i pesciaroli non potevano restare seduti in presenza di un solo cliente in attesa. Il pesce doveva essere sempre fresco e genuino, tanto che era proibito crescerne nei vivai o comperare quello allevato sull’isola Martana. Chissà perché? Fruttaroli e panettieri semplicemente non potevano dedicarsi ad attività “schifose”. Vietato tassativamente poi rivendere frutta acquistata entro quattro miglia dalla città. Non sfuggivano alle regole, almeno sulla carta, neppure i fabbricanti di tegole che per i laterizi dovevano rispettare misure ben precise, fissate dal Comune  e semmai rivedute a corrette due volte all’anno. E non si scherzava sulla loro qualità: non dovevano sgretolarsi prima di un anno, in caso contrario il risarcimento danni spettava al venditore.

Poi c’erano i “bagnajuoli”, cioè i custodi dei Bagni del Bulicame. Si racconta, ma forse è una spiegazione fin troppo semplice e sbrigativa, che molti abitassero proprio nella frazione di Bagnaia. Comunque a loro era assegnato il compito di tener pulite le piscine, soprattutto in concomitanza con i periodi di maggiore affluenza di bagnanti che coincidevano con gli ultimi tre giorni di Carnevale, dal Giovedì Santo sino al terzo giorno dopo Pasqua, con la festa dell’Assunzione e con i tre giorni di Natale (dalla Vigilia a Santo Stefano). Entrata gratuita per tutti. Viterbesi e non. Un calendario comunque flessibile come non era quello che regolava l’attività dei barbieri: nel loro caso, niente forbici e rasoi per le festività natalizie e pasquali (venerdì santo compreso), per le feste della Madonna e dell’Ascensione. Barbe e capelli dovevano aspettare. Una sola trasgressione era punita con un’ammenda di 10 soldi.

Mestieri, ma pure professioni. Come quella dei notai. Alcuni stilavano contratti, testamenti e tutti gli atti con validità civile; altri li mettevano poi nero su bianco. Lavoravano presso tutte le Curie civili e negli uffici comunali, dopo aver prestato solenne giuramento dinanzi al Podestà e ai Giudici. Vergavano, alla presenza dei contraenti, impegni orali, testimonianze e sentenze.

L’arte venatoria non è certamente un mestiere, però è indubitabile che essa fosse molto esercitata: per diletto e anche per necessità. Pure in questo caso la normativa comunale fissava regole chiare: nessuno poteva introdursi con cani e reti sui terreni coltivati, dal primo maggio al primo novembre. Evidentemente anche otto secoli fa c’era l’apertura e la chiusura della caccia che però non era estesa agli orti. Questi restavano off limits per tutto l’anno. Ma, naturalmente, non per i bracconieri di tutti i tempi e tutte le latitudini.

Prossimo appuntamento con Viterbo com´era il 10 settembre.

Buone vacanze ai lettori appassionati della storia.

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