L’appuntamento è “al bar di papà’”. Il bar è il Centrale di piazza del Comune a Viterbo dove ogni giorno il Maestro centellinava il suo primo, anzi secondo, caffè della mattinata. Al tavolo c’è stamani Monica Paternesi. Spira una leggera brezza, avvisaglia comunque non molesta, di un’estate che sta scivolando via. Anch’essa dopo Santa Rosa. Monica è la figlia di Alessio, scomparso poco più di venti giorni fa e che verrà commemorato in Provincia il 18 settembre, a un mese dalla morte. Il ricordo è nitido, puntuale, ma non tradisce emozioni. Forse perché lei di mestiere fa la giornalista, vice redattore capo Economia all’Agenzia Ansa, e in tanti anni le emozioni ha imparato a tenersele dentro, tutte per sé.
E allora partiamo da quel tuo estremo saluto il giorno dei funerali: “grazie, papà, del segnale che ci hai lasciato”.
“Credo che la vita di ognuno di noi abbia un senso quando fa bene una cosa e dunque lascia una traccia di sé alla comunità, una traccia che magari possa servire alle future generazioni. Io penso che papà questo lo abbia fatto con tutte le proprie forze fino all’ultimo giorno della sua esistenza. In maniera militante. Non in senso politico, ma artistico e civile e io di questo ne sono molto orgogliosa anche perché ho avuto la fortuna di venire da una famiglia militante: militante è stato mio nonno e militante è stata mia mamma”.
E quale eredità ti resta?
“Grandissima libertà, poter essere quel che sono, poter dire ciò che penso. E soprattutto non dover appartenere a qualcuno o a qualcosa. Insomma, appartenere a me stessa, ma sempre al servizio della comunità con grande umiltà. Non per niente faccio la giornalista”.
Come ci sei arrivata?
“Grazie a un grande viterbese che era il professor Alessandro Vismara, amico di papà e insegnante di mia mamma. A 18 anni gli chiesi di poter scrivere e mi rispose semplicemente “vediamo”. Dopo tre giorni mi chiamò con una scusa invitandomi a redigere un articolo per la rivista mensile Tuscia. Mi disse: ho un buco in pagina, mi puoi raccontare in cinque cartelle la storia della Bella Galiana? Quando gli consegnai il pezzo, mi ringraziò dicendomi: va bene, puoi fare questo mestiere”.
E papà come la prese?
“Abbiamo sempre riso su questa cosa. Puntualmente mi stuzzicava: ma se non sei neppure capace di tenere una matita in mano…Più o meno ciò che disse a lui il vescovo di Civita Castellana quando era ancora un bambino: ma dove vuoi arrivare se non sai neppure maneggiare un pennello? Io, ovviamente di rimando, gli ricordavo quell’episodio”.
Come ha vissuto, il Maestro, gli ultimi tempi?
“Combattendo il più possibile. Cerco di spiegare il concetto che gli passava per la testa: questa vecchiaia non la sopporto proprio, ma voglio andare avanti con i miei progetti. E lo ha fatto sino alla fine, anche grazie a un ristretto giro di amici grandiosi. Voglio citare in particolare Beniamino Mechelli e Felice Orlandini, due autentici angeli custodi in terra che gli hanno creato intorno una atmosfera quasi fatata nella quale lui è riuscito a vivere da artista fino agli ultimi giorni”.
Se n’è andato con qualche rimpianto, qualche dolore?
“Se n’è andato con l’idea di tante cose che avrebbe voluto ancora fare. Sì, probabilmente un po’ di rammarico c’era, quello del “nemo profeta in patria”. Sicuramente c’era quello legato alla scultura rubata e mai più ritrovata”.
Cioè?
“Nei primi anni Novanta realizzò il primo monumento per Viterbo che si chiamava “Il risveglio d’Europa”, una figura femminile con un ramoscello di ulivo in mano. Fu collocata in piazza del Sacrario, dopo essere stata presentata a Strasburgo in una cerimonia ufficiale. Di lì a qualche anno fu spostata per lavori di sistemazione della piazza. Venne caricata su un camion e non se n’è più saputo nulla. Tempo addietro si parlò di far fondere una nuova copia, che noi abbiamo, ma evidentemente non è andata così. Ora sarebbe importante riuscire a far sì che la traccia lasciata da papà possa essere visibile e utile alle nuove generazioni artistiche. Ma non mi riferisco alla statua scomparsa, piuttosto alla opportunità di creare un movimento artistico collettivo che Viterbo ha sicuramente nel suo dna”.
Il suo più grande desiderio?
“Che rimanesse traccia di se stesso. Non di qualcosa in particolare. Papà era modesto, vulcanico e pure tenerissimo allo stesso tempo. Amava infinitamente la natura in tutte le sue manifestazioni. Parlava con gli uccellini. Ricordo i dialoghi, si fa per dire, con Peppa la quaglia o quando andammo a Vetralla per recuperare un barbagianni ferito”.
La scelta di essere sepolto a Civita Castellana…
“Be’ a Civita era nato e a Civita aveva radici forti. Erano sei fratelli e una sorella. E’ rimasto il più piccolo. I suoi sono tutti sepolti là. Civita gli aveva dato la cittadinanza onoraria e a Civita si trova la sua ultima opera, la fontana realizzata con il materiale utilizzato per fare i water. Una assoluta novità”.
Ultimamente stava lavorando a qualcosa?
“No. Ma è andato a studio fino a due settimane prima di morire, continuava a dipingere. I suoi lavori, in particolare la serie dei “I giardini”, negli ultimi tempi si erano trasformati in giardini di denuncia sociale”.
Domanda banale: il tuo rapporto con lui?
“Strettissimo anche se insolito perché sono cresciuta con la nonna. Però quando ci doveva essere c’è sempre stato. Di papà e di mamma, genitori bambini, ho ricordi incancellabili. Quando dovevamo andare magari a Firenze o in un’altra città perché lui doveva incontrare un gallerista o recarci in Sicilia, viaggiavamo con l’indimenticabile Zagato gialla. I miei davanti, io dietro con il cane. Entrambi ci sono sempre stati anche se la mamma purtroppo se n’è andata anzitempo. Sì, sono molto orgogliosa e fortunata ad aver avuto genitori tanto meravigliosi”.
Foto:Monica Paternesi , a dx la scultura Il risveglio d’Europa foto di Massimo Luziatelli