C’è chi vive in un luogo senza mai sentirlo suo e c’è chi, pur avendo radici lontane, trova in un posto la propria essenza. La famiglia Schirripa è diventa negli anni la certezza di un valore, di una professionalità e di una dedizione che Viterbo riconosce e apprezza. Giorgio Schirripa, neuropsichiatra infantile, padre dell’associazione Eta Beta è stato un punto di riferimento per tanti, così come oggi lo è la figlia più grande, Marta, oncologa di rinomata fama, Francesco il più piccolo dei tre fratelli, impegnato in attività dedite al rilancio della città e Michele (il figlio di mezzo) 39 anni, da poco diventato papà, che ha scelto di dedicare a Viterbo la sua capacità imprenditoriale. Lo incontriamo per farci raccontare cosa lo tiene unito a questo territorio e cosa sogna per il futuro del viterbese.
Alla fine della licenza liceale al Buratti, hai lasciato Viterbo per frequentare l’università, prima a Milano, dopo a Roma e poi di nuovo a Viterbo. A differenza di tanti coetanei, hai preferito restare ancorato a questa città, pur non avendo radici viterbesi…
È vero, come tanti ho sentito la necessità di uscire, esplorare, imparare altrove. Ma più viaggiavo, più capivo che quello che volevo costruire aveva senso solo se aveva un legame autentico con una comunità. Viterbo, pur non essendo la mia città natale, è diventata casa: perché qui ho trovato spazi da riempire, relazioni da costruire, sfide vere. È una città che ti mette alla prova, ma che ti dà anche la possibilità di lasciare un segno, se ci credi davvero.
Sei uscito fuori dal solco della medicina e hai perseguito una formazione Economica. Quando hai capito che la tua strada sarebbe stata nel mondo dei servizi e della ristorazione?
Non è stato un momento preciso, ma una somma di piccole scintille. Ho sempre avuto il desiderio di costruire esperienze, di creare luoghi dove le persone stessero bene. Il mondo della ristorazione mi ha dato un linguaggio per farlo. Lì ho trovato la sintesi tra creatività, accoglienza e organizzazione. Servire non significa solo portare un piatto a tavola: è un atto di cura, è relazione.
Dal Milk a Zero: tanta strada, e sempre qui. E sempre nel centro storico, che invece si svuota…
Sì, ho scelto consapevolmente di restare nel cuore della città, anche quando sembrava andare controtendenza. Per me non è solo una scelta commerciale, è politica, culturale. Credo nel potenziale del centro storico: ogni locale che apre, ogni saracinesca che si alza, è un atto di resistenza e rinascita.
Il percorso è stato lungo e stratificato. Con Milk è iniziato tutto: uno spazio che parlava a una generazione nuova, ad appassionati di musica di tendenza, in un tempo in cui mancava quasi del tutto qui. Poi è arrivato Lab, un salto in avanti anche dal punto di vista del linguaggio e dell’identità. Lì ho voluto sperimentare: cucina più ricercata, cocktail list curate, eventi. È stato un momento in cui ho potuto osare di più, e allo stesso tempo capire meglio chi fossi come imprenditore e come ospite.
Zero, oggi, è la sintesi di tutto quello che ho imparato in quei luoghi: è semplicità, velocità, qualità e consapevolezza. Ma soprattutto, è un altro tassello nel mio impegno per tenere vivo e vibrante il centro storico.
Quali sono stati i momenti più difficili della tua carriera da imprenditore?
Ce ne sono stati tanti. Le aperture, con tutte le incognite che si portano dietro. I momenti in cui il flusso di persone cala e ti chiedi se stai sbagliando qualcosa. Il COVID, ovviamente, che ha messo a nudo ogni fragilità. Ma più che i problemi economici, i momenti più duri sono quelli in cui senti la solitudine delle decisioni. Quando sei tu a dover motivare gli altri anche se sei il primo a sentirti stanco. Però ogni crisi è anche uno specchio: ti costringe a capire chi sei, e cosa vuoi davvero portare avanti. Avere una giusta squadra vicino è sempre la soluzione in ogni momento difficile.
In quali situazioni Viterbo è stata per te l’elemento vincente?
Quando ho saputo ascoltarla. Viterbo ha bisogno di essere letta con attenzione: è lenta, ma non è immobile. È tradizionale, ma desiderosa di novità. Quando riesci a cogliere questo equilibrio, la città ti ripaga.
L’ho visto con Milk, con alcune collaborazioni locali, con eventi nati quasi per caso e diventati rituali. C’è un capitale umano forte, fatto di giovani, famiglie, persone che vogliono vivere meglio — basta dare loro uno spazio autentico.
Le tue attività si affacciano proprio davanti al Teatro dell’Unione, hai mai pensato di proporti per la gestione del bar?
La gestione del bar del teatro è uno dei più grandi sogni che ho. In quel teatro ho addirittura recitato. Ero piccolo con l’associazione Eta Beta. Ricordi legati a mio padre e un amore viscerale per quel teatro.
Mi piacerebbe creare un salotto che possa essere aperto sempre e che possa dare ancor più lustro a quel posto. Lo chiamo sogno perché qualsiasi cosa vedo lì dentro mi sembra perfetta, anche se magari non lo è non posso essere oggettivo su questa domanda. Ti devo rispondere che mi potrei proporre, ma non per una gestione sana, solo per un amore profondo. Sicuramente se faranno un bando, lo leggerò e lo valuterò.
Parlando di legami, l’università della Tuscia è un altro pezzo di cuore. E’ recente la grave perdita dovuta al terribile incendio che ha colpito il Dipartimento di Agraria, tu sei subito sceso in campo. Qual è il tuo legame con l’ateneo? E quale dovrebbe essere quello della città?
Il legame è profondo, la laurea magistrale l’ho conseguita in questo ateneo. L’università ha rappresentato per me, e per tantissimi altri, una porta sul mondo. Ma non può restare una bolla isolata. Il vero salto di qualità per Viterbo sarebbe costruire un ecosistema in cui università, città e impresa si parlino davvero. Io ho sempre cercato di creare spazi dove studenti e cittadini potessero sentirsi parte dello stesso progetto. È tempo che la città cominci a credere davvero nel valore dell’università, non solo per il PIL, ma per l’identità stessa della comunità. La città però deve essere pronta a sentire un po’ di rumore perché gli studenti a volte sono festaioli. Ma ben vengano.
Oggi che nella tua vita è arrivato Tommaso, in quale Tuscia vorresti che crescesse?
Vorrei una Tuscia dove la qualità della vita non sia solo uno slogan, ma una realtà concreta. Dove mio figlio possa crescere respirando bellezza che oggettivamente c’è , ma anche dinamismo. Dove cultura, cibo, arte e innovazione possano coesistere. Dove il centro storico non sia un museo vuoto, ma un luogo vissuto, accessibile, umano. Dove un bambino possa incontrare mondi diversi restando nello stesso quartiere. Dove ci sia verde vivibile. Dove ci siano giochi. In fondo, tutto quello che faccio lo faccio anche per questo: lasciare uno spazio migliore di come l’ho trovato.