Di ritorno da Parigi per la sua sesta Olimpiade come membro dello staff medico della Federazione italiana di scherma, Maurizio Iaschi ha ripreso la sua “ordinaria” attività di fisioterapista. Da trent’anni la sua vita corre su due binari paralleli: da un lato l’impiego presso l’Asl Viterbo, dall’altro la straordinaria “parafrasi umana” (come la chiama lui) tracciata da fioretti, spade e sciabole.
Lo scorso luglio, il suo abbraccio alle campionesse esultanti della scherma Alberta Santuccio, Giulia Rizzi, Rossella Fiamingo e Mara Navarria, che hanno conquistato l’Oro, non è passato inosservato alla stampa locale. In attesa di decidere se ripartire con nuove sfide o lasciare il testimone a qualcun altro, andiamo a conoscere da vicino il fisioterapista dalle mani d’oro e il suo mondo fatto di passione, rinunce e sacrifici.
Partiamo da Parigi 2024: quale istantanea emotiva ti porti a casa?
Il minuto finale, anzi gli ultimi secondi decisivi che hanno decretato l’Oro nella spada della squadra femminile che ha battuto la Francia. Sono stati attimi di pura gioia che hanno ripagato mesi di preparazione e duro lavoro.
Come è iniziata la tua avventura come fisioterapista della nazionale di scherma?
Trent’anni fa grazie al viterbese Massimo Mancinelli. All’epoca c’erano solo due fisioterapisti che seguivano la nazionale e il medico federale decise di incrementare le figure professionali. Oggi lo staff sanitario è composto da una cinquantina di medici. Seguo da diverso tempo il settore olimpionico, in particolar modo la spada. Mi preme sottolineare che la scherma, fino a poco tempo fa considerata una disciplina di nicchia, si sta sempre più sdoganando. A Viterbo c’è un’ottima scuola diretta dal maestro Federico Meli.
Nello sport accade un po’ come nel cinema: accanto a figure di primo piano, come il regista e gli attori protagonisti, ci sono professionalità determinanti che operano dietro le quinte. Secondo te il ruolo della medicina sportiva è sufficientemente riconosciuto?
Oggi assolutamente sì perché ogni atleta di alto livello necessita di presentarsi nelle condizioni migliori e la medicina sportiva è un’ancella indispensabile. Oltre a seguire un percorso di preparazione che dura mesi, come fisioterapista mi capita di fare da tramite tra le esigenze degli atleti e i loro staff che li seguono quando si allenano a casa. È un lavoro di mediazione e di confronto con tutta una serie di figure sanitarie.
Non c’è il rischio di un’eccessiva medicalizzazione dello sport?
Per scongiurarlo bisogna fare un grosso lavoro di educazione e sensibilizzazione degli atleti. La nostra federazione è molto scrupolosa a riguardo. Per esempio sin da quando i ragazzi e le ragazze hanno 15 anni si comincia a renderli consapevoli sul doping. Ogni scelta e azione è condivisa con loro.
Hai avuto modo di confrontarsi con colleghi provenienti da tutto il mondo: che giudizio hai tratto sulla medicina dello sport praticata in Italia?
Ho sempre avuto l’impressione italiani e francesi avessero una marcia in più tanto da essere presi come esempi. La peculiarità italiana sta nel riconoscere al medico dello sport un ruolo di coordinamento attorno al quale ruotano una serie di figure sanitarie.
Qual è stato un intervento particolarmente decisivo nella tua carriera?
Mi ripeto sempre che il nostro lavoro può essere utile ma non è determinante, è l’atleta a giocarsi il tutto per tutto. Ricordo però un infortunio che ha riguardato lo schermitore Aldo Montano: rottura del tendine di una caviglia. Grazie a un sistema di bendaggi funzionali siamo riusciti a contenere il problema e l’atleta è riuscito a gareggiare, vincendo. È stata una grandissima soddisfazione.
Oltre agli aspetti tecnici, come si fa a conquistare la fiducia di un’atleta maneggiando un terreno così delicato come il corpo?
La ricetta è entrare in punta di piedi ed essere sempre se stessi. Le qualità umane sono essenziali per un fisioterapista. Nel caso della nazionale di scherma il rapporto di fiducia si costruisce passo dopo passo, durante il quadriennio di preparazione alle gare olimpiche. In questi trent’anni sono nati dei solidi rapporti di amicizia tra staff medico e atleti e questo è il vero valore aggiunto. Seguendo anche gli under 20 ho visto letteralmente crescere tanti schermitori e schermitrici.
Se pensiamo al giro d’affari di uno sport di punta come il calcio è lecito immaginare compensi cospicui anche per i professionisti sanitari. Come stanno le cose negli sport secondari?
Viaggiamo su cifre decisamente diverse. La molla che mi spinge a mettermi in gioco non è di certo il compenso economico. Facendo un bilancio razionale sono consapevole di aver sottratto molto tempo alla mia famiglia e al mio lavoro di fisioterapista a Viterbo. Eppure la passione per il mondo della scherma mi ha portato ogni volta a fare le valigie per seguire la nazionale, nonostante la lontananza da casa. Devo ancora decidere se impegnarmi per il prossimo quadriennio al fianco della federazione. Al momento mi godo il sapore dolce del post Olimpiadi. Staremo a vedere.
Foto di Augusto Bizzi, cover Maurizio Iaschi primo a sx con lo staff medico olimpico Parigi- A Teatro dell’Unione il 3 settembre con le campionesse olimpioniche di scherma