Maurizio Bianchini: da Quelli della Notte alla quiete di Fabrica tra musica e libri

di Luciano Costantini

E’ grande per quanto infido il rischio di scivolare lungo il pendio della nostalgia quando ti ritrovi a parlare, per quasi una mattinata, con chi è stato tuo amico d’infanzia, chierichetto insieme al quale servivi la messa nella chiesa del paese, infine compagno di liceo. I ricordi sono sempre in agguato dietro a tanti episodi, pure se accaduti mezzo secolo prima.

Strade che si sono divise e che si incrociano di nuovo a Fabrica di Roma dove Maurizio Bianchini è tornato a vivere. “Non per rinuncia – puntualizza – ma per scelta, nonostante io sia ritenuto un ribelle, forse perché la mia esistenza è andata avanti per mutazioni, attraverso cicli di dieci anni”. Studente irrequieto e barricadero, casellante di autostrada, esperto musicale, autore di testi televisivi, chef, e oggi critico letterario autorevole. Prima della chiacchierata, l’impegno reciproco è quello di evitare facili per quanto melensi e personali amarcord. Ci siamo riusciti. Poi il proposito di sintetizzare un racconto lunghissimo di vita vissuta, assai arduo da condensare in un articolo. Se ci siamo riusciti sinceramente non so. Dunque, domande brevi e spazio alle risposte, talvolta smozzicate dagli “omissis” nel rispetto di privatissime vicende.

Sei stato da sempre un amante dei libri…

“Amante va bene, de sempre non è esatto. Qui a Fabrica, quando ero bambino, nelle famiglie non c’era un libro, per mia fortuna però c’era il maestro Giovanni: un insegnante perennemente armato di bacchetta di bambù, che però gestisce anche una preziosa biblioteca. Una volta gli chiedo un libro e lì inizia l’amore infinito per la lettura. A scuola non sono un secchione, ma vado decisamente bene. Conseguita la maturità classica con il massimo dei voti non so quale strada prendere, di sicuro non voglio fare l’insegnante. A risolvere i dubbi è la chiamata della scuola Normale di Pisa dove entro senza fare gli esami. Scatta però quasi subito la fase di rigetto”.

Primo momento di ribellione…

“Non sarà l’ultimo. Tutti si aspettano da me grandi cose che alla fine significano trascorrere la vita ad insegnare all’università. Non fa per me…non va mica bene studiare tutto il giorno. Anche perché è il 1968 e a Roma si occupano le facoltà. Vado alla Sapienza dove faccio tutto meno che studiare e dare gli esami perché proprio non me ne frega niente. Entro nei movimenti politici della sinistra, frequento tra gli altri Valerio Morucci e Adriana Faranda. La prima bozza del “Manifesto” la elaboriamo in camera mia nella Casa dello Studente. Non voglio fare il rivoluzionario a tempo pieno, però ci finisco dentro. A 19 anni conosco una ragazza bellissima, più grande di me, ne sono affascinato. Viene sempre a dormire nel mio letto nella Casa dello Studente e non si può. Risultato: vengo espulso. Sostanzialmente, la mia università è una perdita di tempo: faccio solo l’amore e studio, non quel che serve per fare carriera perché tanto, nella mia presunzione, penso che sul marxismo scriverò cose che nessuno è mai riuscito a capire. Studio il tedesco per leggere il Capitale di Marx in lingua originale. Comunque butto via tre anni della vita perché un giorno all’università prendo per sbaglio un libro di Raymond Aron, grande critico del marxismo, che in dieci paginette mi smantella tutto un edificio di cose per cui tanta gente si sta sparando per strada”.

Altro ciclo: dalla politica attiva alla musica. Come nasce il passaggio?

“Con un furto alla Upim di Viterbo dove rubo un disco con una canzone dei Beatles, “Please please me”, che ho ascoltato alla radio. Quel disco lo consumo su una fonovaligia di un mio zio. Conosco i Beatles sui dischi e conosco Bob Dylan dai cinegiornali. Ovviamente, continuo a leggere. Dai 23 ai 30 anni mi dedico alla mia educazione e svolgo lavori più vari pensando comunque che qualcosa accadrà. Faccio anche il casellante in autostrada, a Roma vado ad abitare nel quartiere di Montesacro. Mi piace il calcetto, con me gioca un ragazzo che pubblica una rivista di musica rock. Mi chiede di collaborare. Per farla breve, quella rivista, la riscrivo dalla prima all’ultima riga. Per cinque anni sono così il direttore ombra del “Mucchio Selvaggio” dove pescano con sempre maggiore attenzione i giornali, diventiamo l’evoluzione musicale di Linus senza avere niente in comune. Un successo. Tanto è vero che nell’81 mi cerca Renzo Arbore.

E arrivano “Quelli della notte”.

“Sì. In realtà, io dovrei realizzare dei piccoli trailer di cinema, mentre di musica si occupa Dario Salvatori e Roberto D’Agostino di costume. Ma scopriamo che il cinema non si può fare perché nessuno ha i soldi per pagare quello che ci viene richiesto. Arbore, che è una persona eccezionale, mi dice: “Maurì, tu ti occuperai dei caroselli alla fine dello spettacolo”. Mi piace stare dentro la trasmissione, molto meno apparire. Al termine della serie la Rai propone ad Arbore di andare in America per raccogliere materiale e costruire qualcosa che avrebbe potuto avere come titolo “Te la do io l’America”, ma non l’America di Beppe Grillo. Renzo è profondamente diverso da Grillo. Giriamo per 50 giorni tutti gli States”

Perché la scelta di Arbore cade proprio su di te?

“Non glielo ho mai chiesto. Probabilmente perché oltre alla musica conosco anche la letteratura, la storia, il cinema americani. Nei sette anni in cui ho fatto poco o nulla, ero andato a vedere tre film al giorno. Renzo comunque ha intuito che nei giovani è venuta meno l’idea di fare la rivoluzione e che ora essi si esprimono attraverso la musica. La musica è il collante e dà l’idea che il mondo è bello, né di destra né di sinistra. Negli Usa raccogliamo una quantità enorme di materiale. Torniamo in Italia con l’America nelle cassette. Giovanni Minoli, allora capostruttura di Rai-2, vuole ripetere il successo di “Quelli della notte” e va in Rai ad annunciare, evidentemente con eccessiva fretta, che avrebbe realizzato un nuovo programma con Arbore. E Renzo rifiuta”.

E quel materiale che fine fa?

“La Rai, per questioni finanziarie, riutilizza le cassette per nuove incisioni. Arbore, in effetti, le ricerca ai tempi di D.O.C., ma praticamente non c’è più traccia. Poi Minoli mi propone “Piccoli Fans”, uno spettacolo in musica con genitori, bambini e cantanti”.

Quindi l’incontro con Sandra Milo.

“Esattamente. Io sono l’autore del programma, lei la conduttrice. Lo faccio per tre anni. Francamente il rapporto all’inizio non va bene, mi dà perfino del “cretino”, poi troviamo un accomodamento grazie al regista Antonello Falqui. In seguito lavoro con Raffaella Carrà, Heather Parisi, Antonella Clerici”.

Decennio successivo, anni Novanta?

“Scrivo per molti giornali: musica e cultura. Poi nel Duemila mi do alla ristorazione, titolare e chef a Casa Tuscia a Nepi. Ho una sana curiosità per il mangiare, e mi dico: prima imparo e poi lo faccio. E’ andata così”.

E arriviamo a Fabrica…

“Amore assoluto. A 18 anni non vedevo l’ora di andarmene, poi all’inizio degli anni Novanta sono finite le illusioni, soprattutto per la politica. Cos’è che si attiva in questi casi? Tutto ciò che ti sei costruito dentro da bambino, quello che ti è entrato nelle viscere e nel cuore. Qui ho scoperto la storia degli etruschi, il gusto delle passeggiate. Per farla breve, ho trovato che questo posto era fatto di tante, meravigliose cose anche se la gente, cioè la politica, spesso per esse non ha dimostrato orgoglio. Dopo aver visto il bello e il brutto del mondo adesso mi piace rivivere l’atmosfera di quando ero ragazzo in tutta la mia ingenuità. Certo non avrò mai più quello che ho avuto, ma trovo questa mia età per certi versi moto bella: non devo rendere conto a nessuno, ho raggiunto la pace con me stesso, so quello che voglio fare e che non voglio fare. So anche quello che non posso fare e tutto finisce lì”.

Il prossimo step, visto che sta scoccando un nuovo decennio?

“Veramente sono quattro/cinque anni che sto in quello nuovo. Ora non ascolto più la musica degli anni Ottanta, ma quella classica. Ho ripreso a scrivere e sono diventato un critico letterario. Esattamente come lo ero per la musica nel “Gruppo Selvaggio”.

 

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