Come si riesce a portare sulle spalle un campanile luminoso alto trenta metri che pesa cinque tonnellate, per le vie di una città che ha spento le sue luci per trattenere il respiro all’unisono? È la domanda che si pone chiunque abbia la fortuna di assistere a Viterbo al Trasporto della Macchina di Santa Rosa: un nome che potrebbe suggerire l’intervento di componenti motoristiche, invece è un trasporto fatto soltanto da uomini, i Facchini, che si impegnano ogni anno in un’immensa prova di forza e di fede. Un trasporto che è metafora della luce della fede che riesce a disperdere le tenebre, anche nel nostro presente così carico di inquietudini e di paure. La sera del 3 settembre, al termine di una giornata che li ha visti recarsi in diverse chiese cittadine, i Facchini compiono il percorso inverso e vanno a prendere la Macchina che li aspetta illuminata sul sagrato della chiesa di San Sisto; da qui la prendono e la portano davanti al Santuario di Santa Rosa, lungo un percorso di circa un chilometro, fatto di vie gremite da una folla acclamante, a volte molto strette e in pendenza. Quest’anno in città l’attesa è doppia, perché debutterà “Dies Natalis”, la nuova Macchina progettata da Raffaele Ascenzi, che promette di bissare il successo della precedente “Gloria”. Di fronte alle difficoltà rappresentate dal peso, dalla fatica, dalle insidie del percorso, ogni anno ci domandiamo come facciano, i Facchini, a compiere sempre il miracolo del Trasporto. A risponderci stavolta è Matteo Balletti, classe 1989 e facchino della nuova generazione, che con la spontaneità e la freschezza proprie della sua giovane età ci parla delle sensazioni che, insieme ai suoi compagni, sta provando e proverà quella sera.
«Ogni Macchina ha un posto importante nel cuore di ogni facchino: io, per esempio, sono entrato nel 2019 e i trasporti li ho fatti sempre con “Gloria”, che per me avrà sempre un significato particolare. “Dies Natalis” dà eccitazione, perché è qualcosa di nuovo anche dal punto di vista ingegneristico e tecnologico. Inoltre, mentre “Gloria” era di forma affusolata, quella che sfilerà da quest’anno sarà una sorta di torre, con la parte superiore più larga che in passato: questo richiederà ancora più concentrazione nei passaggi stretti, per evitare le parti sporgenti non rimovibili. Ma la sensazione più forte ce la darà la sera del 3, quando faremo il percorso al contrario e la vedremo per la prima volta totalmente illuminata dalle luci e dalle candele, pronta per il Trasporto. Prima hai paure, emozioni, dubbi… Poi, quando scavalli piazza Fontana Grande e la vedi su in cima, lì le sensazioni ti arrivano addosso tutte insieme, difficili da descrivere. Adesso mi sento un po’ come se dovessi uscire per la prima volta con una ragazza: a grandi linee sai quello che potrebbe accadere, ma non al cento per cento!».
Matteo non proviene da una famiglia con una tradizione di facchini consolidata, in cui i ragazzi si sentano in qualche modo spinti a diventarlo sull’esempio del papà: la sua è una “vocazione” personale. «È stata mia nonna, che tra l’altro si chiamava Rosa, a iniziarmi alla Macchina», racconta. «Mi portava sotto gli archi di piazza del Comune, la vedevamo scendere da via Cavour, fare il giro e fermarsi. Era “Sinfonia d’Archi”, avrò avuto otto o nove anni. È nato lì il sogno di diventare facchino. Crescendo, il desiderio non è venuto meno. È una sorta di vocazione, per cui sottoponi il tuo fisico e la tua incolumità a uno sforzo importante, mettendoti a disposizione di Santa Rosa, e di tutta la città, per dare il tuo personale contributo».
Balletti attualmente ricopre il ruolo di leva: è quello dei facchini che, a piazza del Teatro, si inseriscono sotto la Macchina con delle travi aggiuntive posteriori, per aiutare l’ultimo e importante sforzo finale della salita a passo di corsa fino al Santuario. «Corde, cavalletti, leve, spallette aggiuntive, spallette fisse, stanghette, ciuffi… Si parte dalle corde e si avanza. Tendenzialmente, il passaggio è dovuto al fatto che i più anziani di entrata, i ciuffi, lasciano e tutti passano al ruolo successivo. È un sistema giusto, perché ogni ruolo che si ricopre è utile, e fa capire l’importanza di ognuno di essi. Le corde, ad esempio,
possono essere viste come un ruolo umile… Ma sono una fatica immane! Devi tirare la Macchina in salita con i facchini sotto che sono stanchi: per quanto in buona forma fisica, è come attaccare una corda a un muro e tirare per un minuto e mezzo, due. Eppure, venti giovani facchini per corda che tirano, è un motore che dà respiro. Anche il mio ruolo attuale, la leva, è importante: chi sta sotto sente che è in qualche modo sostenuto e accompagnato. La cosa bella è che chi lo ha fatto prima di te ti dà consigli su come svolgerlo al meglio. Fondamentali sono anche le figure del capofacchino, del presidente e del vicepresidente, delle guide: ti parlano prima, dopo, durante il Trasporto. Ti caricano e ti danno le indicazioni giuste. Un po’ come gli allenatori nello spogliatoio, prima di una partita importante… Quel famoso “semo tutti d’en sentimento” significa che c’è fratellanza, solidarietà: sappiamo di poter condividere la forza e contare l’uno sull’altro. È lo spirito del Sodalizio dei Facchini: tutti uniti verso lo stesso obiettivo, sostenuti dalla forza che
ognuno ha dentro, che è la fede in Santa Rosa».
Un fattore altrettanto importante è l’energia che la città intera trasfonde nei Facchini. «La sera del tre senti che, oltre a Santa Rosa stessa, è la città che ti sta dando la forza. Da quando esci dal ritiro ai Cappuccini e fai il percorso inverso, senti una carica incredibile, che arriva dalle persone che ti incitano, ti incoraggiano. Questo poi è il momento in cui ho “gli occhi a cuoricino”, perché penso che presto sarà veramente così».
La Macchina e i Facchini sono le presenze tangibili di un culto identitario secolare, che rafforza e rende coesa un’intera comunità. «Toccare la Macchina o sfiorare un Facchino che sfila è come toccare Santa Rosa, un’entità che pur ben presente, è immateriale. Questa per me è una grande responsabilità: forse io non sono in grado di rappresentare bene Santa Rosa, ma ci provo, quella sera e nella vita di tutti i giorni».
Una Santa giovanissima, minuta e debilitata, difesa e trasportata da un centinaio di Facchini ben piazzati: forse in loro c’è anche un senso di protezione nei suoi confronti. «La sensazione di andare a proteggere una persona che, malgrado i suoi problemi di salute, e in quell’epoca, è arrivata miracolosamente a quell’età, forse all’inizio c’è. Ma poi pensi a quello che è riuscita a fare, a battersi contro un imperatore per la sua fede e per la sua città… Alle sue capacità che sono andate oltre l’umano. E allora capisci che, per quanto tu possa essere forte e prestante, in fondo è lei a proteggere te. La sera del tre, e tutti gli altri giorni dell’anno».