“Laura racconta”: Il Balcone

di Laura Sega Marchesini*

IL BALCONE
“Fulvia, rispondete! Fulvia! Fulvia!” gridò allarmata Carmela. S’era precipitata verso la stanza della suocera percorrendo tutto il lungo corridoio verde.
Fulvia era rimasta per sempre addormentata su quella poltrona amaranto che maledisse per trent’anni nel livore del suo confuso, inarrestabile balbettio da quando quel terribile giorno il suo passo, sino ad allora fermo e deciso, si fermò.
L’ictus non le dette il tempo di invecchiare con sobrietà e saggezza; la bloccò impietoso in una paralisi del corpo e dell’anima che sancì un’irreversibile contrarietà nei confronti della vita. Rude, i lineamenti incisi sul volto disegnavano tratti crudi, come scavati a dispetto di ogni impassibile espressività.
La sua tetra immobilità, tuttavia, consegnava al corpo un disperato desiderio di vitalità. Carmela, la giovanissima moglie dell’unico figlio, si prendeva cura di lei come si faceva con quelle suocere d’un tempo a cui tutto era dovuto e da cui nulla era possibile pretendere.
Fulvia fin dai primi giorni le riservò ostilità.
Esercitò su di lei il livore della propria supremazia morale nell’ordine rigido e imprescindibile dei ruoli familiari come se il peso dei servigi ricevuti, l’aiuto e il rispetto ricadessero, carichi di odio, nelle rare e perfide parole che la vecchia le riservava.
Una serva, tenuta a debita distanza dalla venalità del compenso, avrebbe goduto di una maggiore dignità mentre Carmela, la nuora colpevole, macerava nella fatica la sua umiliante subordinazione.
Seppure maldestra e goffa negli acerbi gesti dell’età, non appariva travolta dal gravare schiacciante di quelle precoci responsabilità che, a poco a poco, la privarono, invece, del disincanto dei suoi freschi occhi di ragazza.
L’energia estorta e profusa della povera Carmela, nell’obbedire ai capricciosi comandi, era sadico nutrimento per Fulvia cosicché per quanta Carmela ne perdeva altrettanta, la vecchia, ne acquistava.
La soggezione indotta da quel ricatto morale era succube soltanto del sentimento di assoluto disdegno in quella silenziosa diseconomia del dovere.
Era una vita fatta di onerosità, quella di Carmela e anche il figlioletto di sei anni rappresentava l’ennesima voce passiva nel libro mastro della sua esistenza.
Carmela ragazza era più che altro una fanciulla quando il raziocinio non ebbe il tempo di prevalere sul suo spiccato istinto di donna.
Così, in un’alba baldanzosa e fiera di primavera lei, insieme alla sua fresca e esuberante caparbietà, fuggirono per mano con il giovane più bello del paese.
Quel cipiglio dispettoso, a tratti freddo, sublimò nella determinazione il disincanto della sua eterea incoscienza.
L’inquieta penombra di quella fuga fu complice testimone della sua misteriosa irrequietezza, la stessa che fin da bambina la costringeva alla incredula sorpresa quando le apparivano strane e inspiegabili visioni come quel giorno che, tornando da scuola, osservò la sua gattina Fulvia correre dall’orto di casa verso il portone per poi scomparire dentro la cucina. “Dove è andata?” chiese alla mamma che le rispose con voce evasiva e mesta: “La tua gattina Fulvia è morta. L’abbiamo seppellita stamani”.
Carmela dovette rassegnarsi a quella ingiusta, logorante quotidianità. Ormai quel bel giovane
dai tratti distesi e il largo sguardo rassicurante che, ardito, l’aveva avvolta nelle certezze del suo urgente amore, rappresentava l’ancora arrugginita dei taciti obblighi e dei doveri imposti. Tanto suo marito era divenuto algido e scostante che non ebbe mai il coraggio di confidargli le sue inquietudini via via più fitte e intense che emergevano, apparizioni accecanti di paura quando si trovava tremante e incredula al cospetto della vecchia Fulvia eretta in piedi sulle sue stesse gambe, rinchiusa in un orrido mutismo, la bocca piegata in un sordo e sgualcito sogghigno.
Non riuscì mai a confessargli quegli scherzi della mente che finirono per
imprigionarla in un progressivo e rovinoso isolamento. Quando si precipitò lungo il corridoio verde, come spinta da un antico richiamo di morte, per la vecchia Fulvia non c’era più niente da fare.
Corse così a cercare Ercole, suo marito, perché avvertisse un medico che potesse constatare l’evidenza dell’accaduto.
Scesa sulla strada da quella casa al terzo piano di una modesta palazzina grigia, subito una vicina la salutò: “Carmela, come va? Ho visto la signora. Sta bene adesso!” Carmela rispose turbata che la Fulvia era appena morta.
La vicina insistette: “Impossibile che sia morta. L’ho vista proprio un attimo fa, la signora Fulvia.
Stava bella dritta in piedi sul balcone, lassù, che mi salutava con la mano. Sorrideva”.
*Laura Sega Marchesini, laureata in Economia, è scrittrice di racconti, saggi e articoli su riviste cartacee e quotidiani online. E’ cantante, cultrice di musica e tiene concerti come voce solista.
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