Dagli antichi tetti del centro storico lo sguardo spazia verso Viterbo e le alture cimine. Alle nostre spalle giganteggia la cupola di Santa Margherita. Il qui e l’adesso appartengono a Montefiascone, l’antica Mons Flasconis ricettacolo di storia e patria di gloriosi vini. La mente e il cuore volano a migliaia di chilometri, al nord dell’Europa, e si fermano ad accarezzare un’isola di smeraldo, dove mare e terra si confondono in paesaggi magnifici: “la divisa dal mondo ultima Irlanda”, come la definì il Tasso, dal clima inaspettatamente mite vista la sua latitudine. Ma dopotutto, l’Italia e l’Irlanda sono meno lontane di quanto si immagini. Lo abbiamo scoperto parlando con Kay McCarthy, musicista, cantante e intellettuale originaria di Dublino, oggi residente a Montefiascone, considerata l’“ambasciatrice” del folk irlandese in Italia.
Davanti a una tazza di robusto tè preparato alla maniera del suo Paese – “ma il vostro caffè è magnifico!”- Kay McCarthy ci racconta del suo percorso, e del modo in cui due paesi apparentemente lontani possano somigliarsi. Quello irlandese è considerato il popolo più “mediterraneo” tra quelli nordici: gentile, cordiale, estroverso, abituato a sopportare le avversità: in effetti, un po’ come noi. «Abbiamo in comune il fatto di essere stati a lungo sottomessi ad altri popoli, di essere stati spesso costretti a emigrare altrove… E poi, ci unisce la comune tradizione cattolica, che ci fa essere tolleranti». La comunanza è in qualche modo celebrata il 17 marzo, giorno della festa di San Patrizio patrono irlandese, e anche ricorrenza della nascita dello Stato italiano. Italia e Irlanda camminano per mano lungo tutto il trascorso personale di Kay, nata a Dublino nel gennaio del ’47, «durante una straordinaria nevicata che si protrasse fino a San Patrizio». Figlia di un ufficiale dell’esercito, sovente trasferito per motivi professionali, ha vissuto poi con la sua famiglia all’interno dell’isola, in realtà più limitate ma sempre stimolanti dal punto di vista culturale. «Da bambina amavo cantare e recitare, volevo diventare un’attrice», ci racconta, con una voce che è essa stessa armonia. «Prima di sei fratelli, per alcuni anni sono rimasta figlia unica e giocavo da sola. Avevamo una sala da pranzo, che a me sembrava enorme. Salivo sul tavolo e facevo spettacoli per il mio pubblico di bambole e orsacchiotti. Poi scendevo e applaudivo anche! In Irlanda piove sempre molto, e noi bambini eravamo costretti a giocare in casa, usando creatività e immaginazione». Frequentando la scuola religiosa, Kay acquisì il metodo, il senso dello studio, una disciplina a volte feroce. «A scuola si studiava il gaelico, la lingua nazionale irlandese accanto all’inglese, ma anche musica, e presi lezioni di pianoforte. In chiesa mi incantavo ascoltando il canto gregoriano… Sapevo a memoria le canzoni dell’operetta: andavo a vedere tutte le repliche nel teatro di fronte casa nostra». Crescendo, si innamorò dell’Italia. «Da bambina sognavo di vivere in un paese dove le arance crescessero sugli alberi, così come avevo visto in una foto del libro di geografia. Una volta all’università, scelsi di frequentare la facoltà di Storia Moderna, Lingua e Letteratura italiana, malgrado tutti me lo sconsigliassero. Studiando il latino, la storia di Roma, volendo studiare canto… l’italiano era una scelta quasi obbligata, anche se abbastanza insolita. Ma avevo deciso che l’Italia era il mio sogno».
Durante gli anni di studio Kay perfezionò il suo italiano venendo d’estate in Italia a lavorare. «Facevo la babysitter a Forte dei Marmi, in famiglie che non parlavano l’inglese. Ho imparato subito la vostra lingua, e credo che l’orecchio musicale mi abbia aiutato». Alla fine degli anni Sessanta, Kay vinse una borsa di studio del ministero degli Esteri irlandese che la portò a studiare a Roma. «Il progetto riguardava lo studio sugli irlandesi che avevano prestato servizio militare nell’esercito di Pio IX». A Roma conobbe un giovane musicista di origine pugliese, il percussionista Piero Ricciardi, che sarebbe diventato il suo compagno di vita e di lavoro. «Fossi rimasta definitivamente in patria, avrei avuto grandi possibilità di impiego. Ma sentivo troppa nostalgia, per l’Italia e per Piero, e tornai in Italia per restare». Kay è stata insegnante di inglese presso licei e istituti superiori romani. «Ma la mia passione era ancora e sempre il palcoscenico», continua sorridendo Kay. «Non potendo recitare – per il problema del mio accento – scelsi di cantare. D’altra parte, non avrei potuto farlo in Irlanda, perché in Irlanda cantano tutti… Avrei avuto troppi concorrenti!». Nella Trastevere degli anni Sessanta Settanta era emersa intanto una piccola grande realtà, il Folk Studio: una sorta di laboratorio internazionale di canto e musica popolare, un luogo in cui musicisti provenienti da ogni parte del mondo si incontravano, si esibivano, comunicavano e producevano cultura, suonando e ascoltando musica di ogni genere: dal jazz alle sonorità caraibiche, dal primo cantautorato italiano alle melodie celtiche. «Negli anni Settanta cominciai ad esibirmi proprio al Folk Studio», prosegue Kay. «Incontrai Francesco De Gregori, Antonello Venditti, e tanti esponenti della musica popolare italiana. La musica popolare fatta in modo spontaneo è funzionale alla comunità che la esprime. Ma se la si vuole fare a livello teatrale, penso che bisogna rivisitarla. Il mio approccio era semiclassicheggiante, non filologico. Incontrai un gruppo che già suonava musica irlandese: ci mettemmo insieme e iniziò un bel periodo… Eravamo molto popolari». Kay McCarthy cominciò a far conoscere la musica particolare e affascinante del suo paese, le sonorità di insoliti strumenti musicali, l’impegno dei suoi testi. Con i Róisín Dubh – rosa scura in gaelico – nel 1978 Kay incide il suo primo album per la Fonit Cetra. Negli anni Ottanta è in tour con il gruppo dei Chieftains, e continua le tournées in Italia e all’estero, partecipando a molti festival e a trasmissioni radiotelevisive. Gli album saranno dieci in tutto, l’ultimo dei quali – “L’amore tace” del 2013 – è in italiano. «Terminata l’esperienza con i Róisín Dubh, sono andata avanti a nome mio, insieme ad altri musicisti che ormai seguono me e Piero da vent’anni». Con loro il 19 marzo scorso è tornata sul palco dell’Auditorium Parco della Musica a Roma, per un applaudito concerto. Voce dolce e intrisa di malinconia, il suo stile viene definito “unico e inconfondibile, raffinato e alieno da qualunque etichetta o moda di mercato”. «Spero che sia così, perché è questo che voglio essere io… inutile copiare qualcun altro, bisogna essere se stessi. L’altra sera al concerto ho messo una parrucca nera, per somigliare alle foto con cui si pubblicizzava il concerto, ma poi ho deciso di toglierla. Bisogna avere anche il coraggio di riconoscere il passare del tempo. Una liberazione poi non doversi più tingere…».
Vivendo oggi nel suggestivo centro storico di Montefiascone, Kay può vivere una vita più semplice ed essere pienamente se stessa, dedicandosi alle sue passioni e a ciò che le sta a cuore. «Prima stavamo a Roma. Poi abbiamo cercato casa nella Tuscia: gli Etruschi e la Chiesa storicamente avevano sempre scelto le sedi più belle. Conoscevo già Montefiascone perché ero venuta a esibirmi in occasione di alcuni festival. Siamo qui dalla primavera del 2008». È sotto il cielo di Tuscia che sono nate le sue più recenti composizioni. È sotto questi tetti che si odono le note cristalline e mistiche della sua arpa celtica, la sua voce pura che canta del mondo di oggi, delle sue criticità. «Non è stato difficile per me ambientarmi… Mi piace tanto il fatto che il tempo qui sia tutto mio, e non debba dedicarlo al traffico o alle code. E poi mi piace l’aria pulita… Quando vado a Roma mi rendo conto di cosa eravamo costretti a respirare». Kay è attiva nella cultura e nel sociale, e organizza eventi su varie tematiche, con particolare riguardo ai diritti spesso calpestati dei più deboli. «Mi piacerebbe che Montefiascone si collochi sulla mappa internazionale, così come hanno fatto Bagnoregio, Sant’Angelo, Celleno. Qui si fa molto, ma si potrebbe fare molto di più: temo che non ci sia ancora abbastanza dinamismo». Per Kay McCarthy, che ormai si sente a casa sua in Italia, sono poche le cose a cui non si è ancora abituata. «Per esempio al fatto che le persone qui sono timide e non si salutano per strada», conclude. «In Irlanda se incontri una persona che non conosci, la saluti sempre con un sorriso. Riconosci il fatto che l’altro esiste». Forse, parafrasando Kay McCarthy, la chiave per risolvere tante ingiustizie potrebbe essere impedire all’amore di tacere. Far parlare finalmente l’amore, l’empatia, il rispetto nei confronti degli altri, servirebbe ad annullare le distanze, e ci insegnerebbe a essere cittadini di un’unica grande patria, il mondo.
