Irene Ottaviani, una ‘racconta storie’ con la passione per i video e la fotografia

di Maria Letizia Casciani

Irene Ottaviani è nata nel 1995. La creatività è sicuramente una delle caratteristiche che la distingue già dai suoi primi anni di vita. E’ vissuta a lungo a Villa San Giovanni in Tuscia insieme ai genitori e a quattro fratelli. Ha iniziato molto presto ad amare la fotografia, per il suo diciottesimo compleanno chiede come regalo una camera oscura e inizia a lavorare e a sperimentare sulla fotografia analogica.
Dopo aver terminato gli studi linguistici presso il Liceo Buratti di Viterbo, si trasferisce a Roma dove ha frequentato il corso di Video Design & Filmmaking l’Istituto Europeo di Design (IED).
Durante gli anni degli studi ha iniziato a lavorare come assistente alla regia, regista e art director.
Essere appassionati di fotografia e avere conoscenza della cultura cinematografica, sono i tratti comuni di chi vuole diventare video maker. Dopo la laurea si è interessata principalmente di regia ed ha continuato a lavorare come videomaker, cercando di unire varie influenze letterarie e artistiche al suo gusto visivo.
In questo momento lavora prevalentemente nel mondo dei videoclip musicali, della moda e dei documentari, mentre nel frattempo viaggia per l’Italia, l’Europa e l’Asia. Nel 2018 ha partecipato, a Roma, alla fondazione di OPALE: un duo di regia che mette al centro dei suoi obiettivi la creazione di réportage di viaggi in giro per il mondo.

Solo pochi anni fa un’adolescente si aggirava per la città di Viterbo e per la provincia, creando dentro di sé dei sogni sulla vita. Quali sono stati i suoi? E’ riuscita a realizzarli o sono cambiati radicalmente da allora?
I miei desideri da adolescente sono sempre stati improntati al raggiungimento dell’indipendenza e della soddisfazione personale, al fatto di sentirmi in qualche modo realizzata, alla possibilità di riuscire a vivere di qualcosa che amo profondamente. L’essenza dei miei sogni è quindi fondamentalmente rimasta la stessa: essi, nel concreto, continuano a mutare ogni giorno e, proprio per questo, non amo fare progetti e proiettarmi nel futuro all’interno di qualcosa che già esiste. Sogno di poter diventare un’evoluzione di quello che sono ora, mi piace lasciarmi molte strade aperte e non definirmi, se non per quello che di me è evidente a tutti. Probabilmente ho realizzato qualcuno dei sogni che avevo da adolescente, ma quando questo è successo, probabilmente stavo già sognando qualcos’altro.

Nel suo lavoro l’occhio è abituato a guardare la realtà stando dietro un obiettivo. E’ fondamentale il modo in cui si decide di inquadrarla?
Il lavoro del regista si fonda sulle scelte. Ogni scelta, anche la più banale, condiziona la percezione di una situazione ed allo stesso tempo forma il mio codice visivo. Per questo il modo in cui decido di inquadrare una scena, un oggetto, è il mezzo più importante che ho per lasciare la mia impronta su quello che sto raccontando ed è questa la ricerca che più mi appassiona. L’oggettività è un aspetto dal quale cerco di fuggire: nel mio lavoro c’è sempre anche il mio punto di vista, che, in qualche modo, condiziona lo spettatore ad osservare quella cosa, proprio nel modo in cui ho voluto mostrarla. Lavorando nel campo della moda e nel mondo dei videoclip riesco a sperimentare molto dal punto di vista visivo, facendo leva sull’immaginario. Mi piacerebbe riuscire sempre di più ad inventare dei mondi che si ispirano a ciò che mi circonda, ma che possiedano come filtro anche il mio punto di vista. Ho iniziato da poco a sperimentare anche nel campo dei documentari, un ramo del mio lavoro che mi affascina molto. Anche in questo caso l’oggettività è molto difficile da definire, perché in fase di ripresa, nel momento esatto in cui si vive l’esperienza, si ricevono di solito sensazioni e impressioni, sempre filtrate da me che le osservo. Successivamente, in fase di montaggio, si decide cosa raccontare e come raccontarlo, quindi si tratta sempre di scelte soggettive più che oggettive. Il mio lavoro, poi, spesso si inserisce in un lavoro di gruppo, quindi anche le percezioni e le sensazioni, che si ricevono dagli scambi interpersonali, influenzano l’oggettività di ciò che si sta raccontando.

Il lockdown ha penalizzato la produzione artistica.  Quali sono oggi le sue prospettive?
Durante questi mesi ho avuto emozioni molto contrastanti. Il fatto di essere costretta a stare in casa e di vivere un lungo periodo di chiusura, rispetto al mondo esterno, ha avuto dei pro e dei contro. Il tempo è passato molto velocemente devo ammettere. In questo momento tutto sembra essere tornato alla normalità e proprio ora sto lavorando molto. Solo fino ad un mese fa era tutto bloccato, ma, nel frattempo, ho avuto il tempo di portare avanti diversi progetti nati precedentemente e di immaginare qualche evoluzione possibile per il futuro.

il cantuccio in cui solo siedo
Qual è stato il punto della città di Viterbo, o della provincia, in cui si è identificata maggiormente e da cui si è sempre sentita accolta?
La Tuscia è piena di luoghi bellissimi e possiede anche una varietà incredibile di paesaggi. Un posto cui sono molto affezionata e che reputo una tappa fissa, ogni volta che torno al mio paese, è quella che noi chiamiamo “la Scuffiaccia”, una fonte immersa nel bosco, non lontana dal centro del paese e semplice da raggiungere, anche a piedi. Se invece ho più tempo a disposizione, non rinuncio mai a una notte sulle rive del fiume Mignone, lungo il percorso della vecchia ferrovia abbandonata che tempo fa collegava Orte a Civitavecchia.

Il ritorno alla realtà è con le mani su una telecamera e tanti progetti da rincorrere.

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