È una terra dura e difficile, la maremma laziale, dai contrasti poetici. La crosta pietrosa di tufo e di macco cela terriccio fertile e fresco. Il verde argenteo degli olivi si mescola all’ombra della vigorosa macchia mediterranea, si stempera nel bianco dei mandorli a primavera, si esalta con il colore rosso bruno della pietra. È una terra che nasconde gelosa le tombe di un fiero popolo. Gli antichi paesi, come Monteromano, tramandano tenaci legami con le radici contadine. E quando uno dei loro abitanti si trasferisce altrove, porta invariabilmente su di sé l’impronta della sua terra madre, come una scultura di metallo riporta la forma del suo stampo. Di questo, e di tanto altro, può parlarci Geremia Renzi: nel percorso di vita e di arte che l’ha portato lontano dalla natia Monteromano, è rimasto sempre indissolubilmente legato al territorio di origine. Classe 1955, scultore di fama internazionale, scrittore, pittore e performer, già docente all’Accademia di Belle Arti di Bari e in seguito all’Accademia di Brera, vanta un curriculum artistico sterminato: a partire dal 1968 partecipa a oltre quattrocento mostre, tra personali e collettive, nazionali e internazionali; è presente alle più qualificate manifestazioni artistiche europee e statunitensi. «Ho sempre mantenuto legami forti con il mio territorio di origine. Non so se è un mio difetto, ma ogni volta che voglio realizzare qualcosa la propongo prima al mio paese».
Il suo percorso nel tempo come scultore è scandito dalla continua ricerca di nuovi materiali da utilizzare, da quelli poveri come la cenere a quelli fieri e preziosi come il ferro e il titanio. È proprio con il ferro, metallo maschile per eccellenza, guerresco e corruttibile che Renzi, giocando tra i pieni e i vuoti, realizza corpi graffiati, forti e sofferenti, a simboleggiare l’inadeguatezza umana a rapportarsi con rispetto alla natura che ci circonda. Per “accendere la pelle” delle proprie sculture, Geremia Renzi ricorre ultimamente al titanio. «Se il ferro è un elemento maschile, allora il titanio è femminile: pulito e argenteo, riesce però a tirar fuori i propri colori da dentro». Ogni materiale usato diventa esso stesso mezzo di espressione, prima ancora di trasformarsi in un’opera d’arte. Renzi utilizza dapprima la cenere, «la materia morta ma vivente, tinte familiari, polverose e terrose che mi permettevano di raccontare profondamente il vero credo di quel tempo». Erano gli anni Settanta, quelli della protesta, della frequentazione di personaggi di elevata caratura culturale, come Pasolini, che Renzi ebbe modo di conoscere: «Ero un giovane che voleva capire, ed entrare più nel profondo delle cose», racconta. «Con il passare del tempo quel comune sentire, quel “valore no” che io volevo affermare con l’uso della cenere, si è poi dimostrato distante dal sogno ipotizzato dalla mia generazione». Dopo quel decennio animato da utopie appassionate, arrivano gli anni Ottanta, quando il pensiero si ripiega su se stesso e perde le sue certezze. Gli intellettuali e gli artisti italiani rimangono affascinati dalla Beat Generation d’oltreoceano, dal suo rifiuto dell’establishment. «Allora dipingevo su tela jeans, dalla quale emergevano porzioni di corpi nudi: individui che scappavano da abiti che simboleggiavano il falso mito americano… E pensare che le vendite migliori le ho avute proprio lì, in America. Tutte le mie tele Jeans non vendute all’estero, sono rimaste di proprietà della galleria Italia di Bari, che mi seguiva in quegli anni, e che poi ho lasciato nel 1988 per trasferirmi all’Accademia di Belle Arti di Brera».
Al suo percorso artistico Geremia Renzi affianca infatti ben 42 anni di insegnamento, che ha svolto in modo mai asimmetrico: «Dall’insegnamento ho imparato molto. Credo che questo sia valido per tutti gli insegnanti; nell’arte lo è in maniera speciale. Ho iniziato a insegnare a ventitré anni, sono cresciuto insieme ai miei studenti. Ci sentiamo ancora spesso, molti di loro sono diventati artisti di avanguardia. A Brera abbiamo realizzato un’aula per la fonderia artistica, con tutta l’attrezzatura, la fonditrice, forni… Fondevamo il titanio lì, si andava a 2000 gradi. Poi è arrivato il Covid e la didattica a distanza… Ma come si fa a insegnare tecniche di fonderia a distanza? Non ci riesco, io devo fare, muovere le mani. Ho lasciato l’insegnamento, ma rimango sempre in contatto con loro, perché imparare non basta mai». Di recente, l’arte è divenuta per Renzi qualcosa da realizzare in partecipazione. «Se lascio che altri entrino nella mia opera, rendo più forte e vivo il mio lavoro, perché si aggiungono altre interiorità e altri sentire», spiega. «Il risultato è più incisivo, più potente. L’arte può in questo modo generare comportamenti attivi, che si oppongano alla passività di un sistema di mercato. L’arte non può sottostare alle logiche di mercato! Nel momento in cui qualcosa “va”, è ricercato, vuol dire che è morto, a quel punto l’artista deve andare oltre… Le gallerie hanno perso il loro ruolo di guida, si sono trasformate in supermercati, per questo non le frequento più». Anche la funzione delle mostre è cambiata. «Il loro scopo oggi è puramente relazionale: si fanno per conoscere gente. Una volta l’artista si travestiva e si mescolava ai visitatori per ascoltare le impressioni a caldo. Ma era più semplice anche capire un’opera d’arte. Oggi mi imbatto con chi guarda le mie creazioni in modo superficiale, con chi le considera o meno una bella “sculturetta”… Ma c’è di più di questo! Bisogna capire perché ho voluto rappresentare così quel concetto. Una forma scarnificata di uomo nudo, di ferro, che sta in una certa posizione, dice ben altro». Una performance artistica che Renzi ha recentemente realizzato è il Cubo Nudo. «Lavoro all’interno di un grande cubo fatto di tubi metallici, mi muovo dentro e fuori di esso, nudo, perché rappresento l’umanità stessa, calata all’interno del nostro spazio tridimensionale, portatrice di una sua coscienza interiore. E quel cubo è il limite oltre il quale l’uomo non può spingersi. Qui non si tratta di avere un corpo più o meno in forma: il corpo umano racconta di sé molto più di quanto sia vecchio o imperfetto!».
L’uscita dall’Accademia ha significato per Geremia Renzi la possibilità di lavorare senza più vincoli di luogo e di orario, e di dedicare progetti alla Tuscia. «Divento vecchio, e mi va di darmi da fare. Un progetto a cui sto lavorando è la rimodellazione del paesaggio. Nella Tuscia ho trovato zone stupende, sfregiate da cave che poi sono state dismesse… ce ne sono a Tarquinia, a Tuscania, ad Arlena. Sarebbe bello andare lì e rimodellare il terreno, riqualificarlo, valorizzare le cicatrici inflitte dall’uomo, farle diventare parchi di sculture, teatri di eventi… perché no. Sul negativo possono nascere delle possibilità. E vorrei realizzare l’Uovo Cosmico, una scultura in negativo nella pietra, una grande cavità a forma di uovo, simbolo di vita. Smartellinare il tufo, il macco delle parti nostre, muovere le mani, realizzare un grande locale simile ad una tomba etrusca, che simbolizzi la rinascita. Potremmo farci di tutto, manifestazioni, incontri, qualsiasi cosa. Quando saremo finalmente fuori dalla pandemia, rinascere sarà l’unica cosa che conta». E Monteromano? Il borgo nativo ricorre spesso nei racconti di Geremia Renzi, insieme alle atmosfere della sua infanzia. «Mio padre disegnava. Mio zio Renato disegnava: era un tipo un po’ strano, e se in giro per il paese lo coglieva la pioggia, si riparava nei portoni. Per ingannare il tempo, disegnava sui muri con la punta spenta di un fiammifero. Capolavori, secondo me, che qualcuno ha perfino incorniciato. È il paese mio, provo un amore infinito. L’ultima cosa che ho proposto all’amministrazione è stato il progetto Panchine d’Arte. Avevo ragionato sul fatto che, con la prossima apertura della superstrada, nessuno più passerà da Monteromano. Così, camminando sul marciapiede, ho visto gente seduta sulle panchine. Ne ho contate un centinaio, in un paese di mille abitanti! Ho detto, facciamo panchine scultura, chiamiamo a realizzarle artisti di tutto il mondo, sai quanta gente verrebbe a sedersi, a fotografarle? Beh, vediamo se prima o poi si riuscirà nell’intento».