Francesco Paolo Di Noto e il Teatro Randagio. In altre parole, libero

di Donatella Agostini

Francesco Paolo Di Noto

Randagio: come chi è privo di legami, riferimenti o padroni, e per questo si sposta, vive e si esprime senza limiti o confini. In altre parole, libero. Ma che succede se questo termine lo accostiamo al concetto di teatro, già di per sé insofferente alle categorizzazioni?

«Teatro Randagio intanto perché, banalmente, quando abbiamo iniziato non avevamo una sede fissa. Ma soprattutto perché la parola racchiude un mood: il nostro non è un teatro formale, non facciamo niente di fisso, di standardizzato». Francesco Paolo Di Noto, viterbese classe 1996, regista, attore, drammaturgo, poeta, nonché presidente dell’Unione Teatrale Viterbese: un fiume in piena di entusiasmo, ironia e voglia di mettersi in gioco. Assieme a Mattia Alfieri, Di Noto è il fondatore dell’associazione Teatro Randagio, nata tre anni fa a Viterbo con il preciso intento di fornire ai viterbesi la possibilità di avere un luogo in cui esprimersi liberamente e crescere a livello emotivo e personale. «A Viterbo il novantanove percento delle persone – dai quindici ai settantadue anni di età – che scelgono di seguire un corso di teatro, non lo fanno in primis per diventare attori, ma per migliorare la postura, la dizione, l’espressività vocale, o limitare la gestualità… Altri cercano miglioramenti emotivi, percorsi interiori, spesso indirizzati dagli stessi terapisti psicologici che li seguono. Ed è proprio questo il nostro approccio vincente: lo stretto legame tra teatro e psicologia», esordisce Francesco Paolo.

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Niente come il teatro infatti permette di conoscere noi stessi, scoprire aspetti della nostra personalità che ci erano ignoti, esplorare e sperimentare le nostre capacità e potenzialità: il teatro può migliorare la sicurezza in noi stessi e i rapporti con gli altri. «Io e il mio cofondatore, Mattia Alfieri, che è psicologo, ci siamo concentrati proprio su questo», continua. «Lui rappresenta l’elemento che ci differenzia dagli altri corsi. Non si pensi a  sessioni di terapia con le persone, piuttosto a un’attività di supporto al mio lavoro di responsabile creativo. Non partiamo da un programma standardizzato, preconfezionato. Facciamo iniziare il corso, e durante gli incontri osserviamo sia gli individui sia il gruppo che si è formato, le tendenze individuali e quelle collettive che si vanno creando, e poi decidiamo se assecondarle, oppure andare in una direzione completamente opposta, calibrando così le successive lezioni. Il gruppo è composto da persone disposte a darsi molto dal punto di vista fisico, e poco dal punto di vista “cerebrale”? Possiamo assecondarle e farle lavorare su un progetto molto fisico, direi “ginnico”, per esplorare effettivamente le loro potenzialità, oppure al contrario cercare di stimolarle e affidare loro un lavoro psicologico, sottile, un Pirandello ad esempio. E viceversa. Può succedere comunque che Mattia intervenga di persona, alle classi; a volte sono gli stessi studenti che gli rappresentano in privato le loro difficoltà relazionali o intime, allora organizziamo un’attività di gruppo che vada a ripianare con naturalezza questo problema, senza doverlo esporre davanti a tutti».

Gran parte della formazione da insegnante teatrale di Francesco Paolo deriva dall’essere stato egli stesso studente e attore, fin da quando era ragazzo. «Anche se presto mi sono accorto che fare il regista, il drammaturgo, l’insegnante, è molto più appagante, lo trovo di una soddisfazione incredibile», racconta. «Ho iniziato con l’associazione culturale Pecora Nera, un progetto che durò relativamente poco, ma che si fece sentire tanto. Andò in scena per la prima volta una decina di anni fa, con “Mercutio Furioso”. Per questo spettacolo ci fu una grandissima riapertura del Teatro San Leonardo. Poi il teatro richiuse, e chiuse di lì a poco per lavori anche l’Unione… Fu un periodo terribile per il teatro a Viterbo. Cosa che comunque non ci impedì di fare esperienze interessanti e anche molto divertenti». prosegue. Finché un giorno per lui Viterbo non cominciò ad essere troppo ristretta a livello culturale e professionale, così a ventitré anni andò a vivere e a lavorare a Bologna. «A Bologna ebbi un sacco di possibilità di fare pratica teatrale. Lì c’è influenza e contaminazione tra le varie arti, un tipo di apertura mentale che a Viterbo non mi ero mai sognato. Estremamente stimolante, ma anche estremamente competitiva: in tanti fanno gli artisti a Bologna perché è una città di artisti, di filosofi, di musicisti… è difficile emergere, ti senti piccolo. Tornato a Viterbo, ho avuto la sensazione opposta: qui ci sono potenzialità, c’è spazio. Viterbo sembra in letargo, ma in realtà non lo è: se si va a vedere, ci sono più di cento associazioni teatrali, la gente ha bisogno di un luogo dove si possa esprimere con maggiore libertà, dove ci sia un tipo di comunicazione diverso da quello a cui la città è abituata. Però le proposte culturali a Viterbo al massimo sono passive: il concerto in piazza una volta l’anno, e tu vai lì e assisti, ma non hai una presa di parte. Se vai a teatro e banalmente batti le mani, c’è già un tipo di coinvolgimento diverso. Se vieni a vedere uno spettacolo di Teatro Randagio, puoi addirittura andarlo a fare tu, e c’è gente che ci ha fatto: l’anno scorso ha assistito agli spettacoli, e ha detto: fico, voglio provare anch’io». Come presidente dell’Unione Teatrale Viterbese, Di Noto sottolinea le difficoltà che incontrano quotidianamente le tante entità teatrali presenti sul territorio. «L’UTV nasce dalla collaborazione tra alcuni dei principali esponenti teatrali di Viterbo, come ad esempio il Teatro San Leonardo. Scopo: ci sono tante realtà amatoriali e studentesche, tante non producono nulla o sono inattive, altre invece producono ma non se le fila nessuno, al di fuori dello spettacolino che riescono ad allestire in parrocchia. Serve cercare risorse, anche attraverso i bandi. Serve farsi conoscere per attirare il grosso del pubblico. La competizione è buona, ma fare rete è meglio».

Di solito i corsi di teatro hanno la particolarità di “resettarsi” tutti gli anni: «Ci sono alcuni che fanno lo stesso corso per molti anni, senza andare mai oltre, perché arrivano sempre persone nuove e ogni volta si deve ripartire . A Teatro Randagio stiamo cercando di evitarlo: per i primi due anni si può ancora inserire gente, perché sono più o meno identici. Dal terzo anno in poi c’è una specifica di crescita. Quest’anno abbiamo un primo, un secondo e un terzo anno, quest’ultimo chiuso, tredici persone che hanno voglia di continuare tutte insieme, così da poter andare avanti con il programma. Pensiamo a un percorso che durerà indicativamente cinque anni, un incontro a settimana, così si ha il tempo organico di assimilare». Gruppi che si aggirano intorno alla decina di persone, «perché così ho il tempo materiale di dare attenzione a tutti». Tre mesi di laboratorio, sei mesi di lavoro sullo spettacolo di fine anno. L’anno scorso Teatro Randagio ha messo in scena “Così è se vi pare” di Luigi Pirandello, e “Figlio del Tuono”, un testo originale ispirato a una storia vera di un leader nativo americano, entrambi rappresentati con successo al Teatro Francigena di Capranica, mentre l’anno prima lo spettacolo è stato rappresentato in modo itinerante nelle vie del centro storico di Bagnaia. «Lo spettacolo di fine corso è una parte integrante della formazione, è importante che loro vadano in scena, che capiscano come si mettono in pratica di tutte quelle cose così vaghe e poetiche e metaforiche, apparentemente slegate tra loro, che abbiamo visto durante l’anno: è quello a formarti. Le persone che hanno frequentato il corso sono completamente diverse rispetto a com’erano all’inizio. Così è sufficiente che io, a fine corso, dia a quelle persone tre indicazioni vaghe, poetiche e metaforiche; loro le prendono e ci creano qualcosa di bello, perché si fidano. E io mi commuovo».

Un Teatro Randagio fino al logo, che è la sagoma di un cagnolino con un cappellino giallo. «Lui però è Kinu, il mio vero cane, con addosso il mio vero cappello», conclude con un sorriso Di Noto. «A proposito di cani, il nostro sogno sarebbe quello di creare a Viterbo una scuola di spettacolo multidisciplinare, dove ci possa essere formazione di ogni tipo, da attore a tecnico delle luci, da tecnico audio a  compositore, fino allo scenografo… Ci piacerebbe chiamarla “Il Canile”! Visto che la linguistica italiana definisce “cane” un cattivo attore, si potrebbe fare in modo che gli attori che escono dal Canile siano tra i più bravi… Sarebbe veramente stupendo».

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