Della fortunata serie Netflix “Tutto chiede salvezza” e di come affronti con delicatezza e autenticità il tema dei disturbi mentali tanto si è detto e scritto. I sette episodi di “sofferenza e redenzione”, citando il critico Aldo Grasso, dipanano una storia che parla tanto agli adulti quanto ai giovani. E sono proprio quest’ultimi i primi a sentirsi toccati, a sollevare interrogativi.
Siamo in un’aula del Midossi di Civita Castellana, una classe seconda dell’Itis. La visione del primo episodio fa da apripista per conoscere meglio Daniele Mencarelli, il romanziere che ha ispirato l’omonima serie (in uscita a fine gennaio il suo prossimo libro per Mondadori, “Fame d’aria”). I ragazzi, con quel piglio di spavalda e apparente controvoglia, leggono alcune poesie dell’autore. Leggono e scoprono parole famigliari, che gettano lo sguardo oltre il “punto d’orrore”, versi che sfondano il muro stereotipato del matto, del diverso, del disagiato.
Nasce così l’idea di portare tra i banchi proprio lui, Mencarelli, di intervistarlo in modo corale. Lo scrittore accetta, si presta all’incontro e rilancia a sua volta. “E per te cos’è la salvezza?”, chiede a uno dei ragazzi in prima fila. Le risposte aprono a una conoscenza reciproca. Le storie si intrecciano, c’è la voce del narratore contemporaneo ma anche quella del compagno di scuola, quella che si riscopre fraterna e “maestra” perché ha sofferto un pezzettino in più dell’altro. “D’altronde ferita e feritoia hanno la stessa etimologia – dice Mencarelli – a uscire fuori è il sangue ma a penetrare è la luce. E allora tu, ragazzo con il tuo vissuto, mi sei maestro”.
Da ragazzo quale lavoro sognavi di fare?
Dal poliziotto al pugile. Ogni generazione cresce con i suoi miti, anche televisivi. Poi ho incontrato la poesia, prima da lettore e solo dopo da scrittore. Nella vita ho fatto tanti lavori. Ora finalmente faccio qualcosa che amo ed è impagabile perché il lavoro non è solo sopravvivenza ma anche amore e passione. Vivere la vostra età non è facile ma sappiate che se state fermi, impassibili, nessuno verrà a bussarvi alle spalle per svelarvi qual è il vostro talento.
A che età hai cominciato a scrivere?
Avevo all’incirca sedici anni. Un po’ prima, in terza media, la mia professoressa di lettere svegliò in me la curiosità per i libri. All’epoca una nota casa editrice aveva messo sul mercato una collana economica. Compravo i libri che costavano meno. E leggevo.
Qual è la tua poesia preferita?
Domanda difficile ma direi “Lamento (o boria) del preticello deriso” di Giorgio Caproni perché mette in scena i grandi significati dell’esistenza.
Con quali poeti hai collaborato?
Milo De Angelis e Mario Luzi sono solo alcuni che potrei citare. A un certo punto della vita ho iniziato a girare l’Italia per cercare i miei maestri. Qualsiasi lavoro decidiate di intraprendere, andate alla ricerca dei vostri maestri, senza di loro non si va da nessuna parte.
Come mai conosci così bene il mondo delle malattie psichiatriche?
Perché ne ho sofferto. Le ho avute e ce le ho. Mi definisco instabile e continuo a credere nella salvezza, in qualcosa che ci sopravvive. Durante la Prima guerra mondiale al poeta Clemente Rebora venne diagnosticata la mania dell’eterno, in fondo un desiderio che l’uomo ha sempre avuto ma che nel ‘900 inizia a essere catalogata come malattia. Oggi c’è sempre più la tendenza a medicalizzare. Credo che l’essere umano abbia sempre sentito il diritto di abbracciare ciò che ha perso.
Pensi che la serie Netflix sia stata fedele al tuo romanzo?
Lo è stata per quanto può essere fedele una serie tv. Quando c’è di mezzo la complessità dei linguaggi è naturale incorrere in qualcosa di mutevole e indecifrabile. Quante volte, per esempio, vi capita di dire alle vostre fidanzate che non vi capiscono? Tuttavia sono molto soddisfatto della serie, salvo alcune scelte musicali, mi è piaciuta al 95%.
*Insegnante prof.ssa Paola Maruzzi


 
			





















