Colasanti e Midossi abbracciano la cultura della legalità con Tiberio Bentivoglio, vittima di mafia

di Paola Maruzzi

Da sx, Angela De Angelis (dirigente Colasanti), Tiberio Bentivoglio e Alfonso Francocci (dirigente del Midossi)

Nell’ambito del ciclo d’appuntamenti “Denunciare è democrazia” siglati dalla Rete di scuole per la legalità Giovanni Falcone, si è svolto lo scorso 15 marzo, presso l’aula magna del Colasanti e del Midossi di Civita Castellana, l’incontro con Tiberio Bentivoglio, primo imprenditore calabrese dissidente verso la mafia e autore del libro “C’era una volta la ‘ndrangheta” (Edizioni Del Sole). Una testimonianza dedicata alle nuove generazioni, scritta per salvare dall’oblio alcune pagine di cronaca nera del nostro Paese, come il migliaio di morti ammazzati dovuti alla lunga faida tra clan rivali in una Reggio Calabria oscurata dal coprifuoco, tra la metà degli anni Ottanta e il 1991. Una storia al tempo stesso amaramente autobiografica che, con perizia di dettagli, tratteggia il purgatorio di intimidazioni, minacce e attentati vissuti da chi, alla richiesta di chinare il capo al pizzo, ha scelto la dignità e la legalità, come sottolinea nella prefazione Nando Dalla Chiesa.

Nel tempo la lotta ultratrentennale di Bentivoglio ha trovato terreno fertile nell’associazione Libera che, alla presenza di Don Luigi Ciotti, battezza nel 2010 l’iniziativa antiracket ReggioLiberaReggio che oggi raccoglie e supporta circa 90 imprese reggine. Il muro dell’omertà, quello che al principio aveva fatto di Bentivoglio un caso da isolare, inizia a sgretolarsi. Esempio ne è il numero crescente di attività commerciali della città calabra che decidono di mettere in bella mostra le vetrofanie con il motto “La legalità non ha pizzo”, slogan ideato da una ragazzina di undici anni.

“Dialogando e facendo rete abbiamo raggiunto risultati meravigliosi, impensabili fino a poco tempo fa e molto c’è ancora da fare – spiega l’imprenditore alla platea di ragazzi –. Non avrei mai immaginato di portare la mia storia in giro per le scuole d’Italia, di poter fare i nomi e i cognomi dei mafiosi”. Ed è proprio qui, tra le nuove generazioni, che si rinnova il patto con la legalità, che la testimonianza appassionata del singolo si fa scuola di un nuovo senso civico.

Ad aprire il dibattito è la domanda semplice quanto complessa di un giovanissimo studente al primo anno dell’Itis: “Che senso ha combattere la mafia se questa trova sempre il modo di risorgere?”, si chiede Mirko. Puntuale la risposta: “La mafia è un male endemico ma prima di arrendersi all’idea che sia incurabile dobbiamo spostare l’attenzione su quanto stiamo facendo per sconfiggerla: per ora ancora troppo poco, le denunce per la richiesta del pizzo sono esigue ma se ce l’ho fatta io possono farlo anche altri. Tanto potete fare anche voi giovani, armati di libri, conoscenza e consapevolezza”.

Bentivoglio continua parlando con schiettezza e ripudiando senza giri di parole il “premio” consolatorio del facile eroismo. “Denunciare il pizzo non ha nulla di eroico. Denunciare è l’atto dovuto alla nostra democrazia. Ho avuto e ho tuttora un grande timore per le conseguenze a cui posso andare incontro. Quando la ‘ndrangheta ha ordinato di spararmi, colpendomi al polpaccio, me la sono fatta addosso. Non mi considero un eroe. Nelle mie vene non scorre coraggio ma rabbia, la rabbia di chi viene dalla gavetta e vede ciò che ha costruito con tanta fatica andare in malora. Sono figlio del Dopoguerra, di chi si è fatto da solo. A casa mia si mangiava carne una volta alla settimana, non ho mai imparato ad andare in biciletta perché l’unica che avevamo la usava mio padre, operaio, per andare al lavoro. Mia madre faceva la sarta. Poi, grazie ai sacrifici e agli studi arriva il balzo sociale, con l’apertura di un negozio di sanitari. Gli affari andavano bene, negli anni Ottanta fatturavo 2 miliardi di vecchie lire”. La volata s’interrompe nel ’92 con la richiesta del pizzo e, al netto rifiuto, l’inizio del dramma: l’incendio al negozio, lo stigma sociale, i clienti che per timore diradano e, infine, l’inevitabile danno economico.

A pochi giorni dalla Giornata nazionale in ricordo delle vittime di mafia, che cadrà il 21 marzo, l’odissea irrisolta di Bentivoglio contribuisce a seminare speranza, a rimarcare l’importanza di portare la parola viva della legalità nei luoghi del sapere, urgenza rimarcata anche dai dirigenti scolastici del Colasanti e del Midossi, Angela De Angelis e Alfonso Francocci.

Bentivoglio è l’unico imprenditore italiano riconosciuto come vittima di mafia a portare avanti la sua attività all’interno di un bene confiscato alla ‘ndrangheta, un immobile prestigioso al centro di Reggio Calabria appartenuto al boss Gioacchino Campolo, meglio noto come il re dei videopoker. Un riscatto morale, certo, ma che non lo salva dalla spirale di debiti accumulati per via della sua attività da ribelle: “Chi decide di denunciare non può essere lasciato solo. Seppur timidamente, il numero delle piccole e medie imprese che, anche grazie militanza di Libera, sceglie la legalità è destinato a crescere – racconta Bentivoglio a margine dell’incontro –. Attualmente a Reggio Calabria ci sono undici imprenditori che, come me, vivono sotto scorta per aver denunciato la ‘ndrangheta e sempre più spesso incontro colleghi di tutta Italia che trovano la forza di dire basta al racket. Ci stringiamo le mani, ci sosteniamo, ci diamo supporto ma non basta”.

Oltre alla mutua solidarietà tra imprenditori, “la vera battaglia – chiude Bentivoglio – deve impugnarla lo Stato affinché si scongiuri il danno economico di chi, pur trovando la forza di denunciare, si vede ridotto all’osso da un punto di vista economico. La lotta al racket deve farla anche la politica, una politica che in questi anni ho trovato buona a parole ma latitante nei fatti. Nei prossimi mesi chiederò di nuovo udienza alla Commissione Parlamentare antimafia per presentare, per la sesta volta, le mie dodici proposte. Tra le richieste c’è la cancellazione delle ipoteche sui nostri beni immobili e la modifica della legge 109/96 sul riutilizzo dei beni confiscati, con la speranza che anche gli imprenditori riconosciuti come vittime di mafia possano usufruirne senza pagare l’affitto, come già accade per le cooperative sociali. Fino ad oggi i politici ci hanno sempre dato ragione e supportato ma, di fatto, nulla si è mosso. Continuerò a lottare per avere giustizia e sostegno, non ho perso la dignità con i mafiosi e non la perderò con lo Stato”.

Incontro con Tiberio Bentivoglio con gli studenti del Colasanti e del Midossi

 

Nella cover, da sinistra: Angela De Angelis (dirigente Colasanti), Tiberio Bentivoglio e Alfonso Francocci (dirigente del Midossi)

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