Barcellona ferita, cresce la voglia d’indipendenza

David Pasquini

Le ferite di Barcellona raccontano la città meglio dei monumenti. Lo fanno con gli sfregi sulla facciata della chiesa di San Filippo Neri, ricordo dei bombardamenti italiani del 1938, con i solchi pieni di binari che interrompono il razionalismo urbanistico ed isolano i quartieri popolari del nord-est, risultato di una demografia che è esplosa ed ha escluso. C’è poi la ferita recente, che ha l’odore dei fiori e delle candele per le vittime de Las Ramblas, e quella mai sanata del conflitto con Madrid, raffigurata dai vistosi vessilli che inneggiano al ed ornano le finestre della città.

Il 1º ottobre gli elettori catalani saranno chiamati ad esprimersi per l’indipendenza dalla Spagna. Lo faranno per la seconda volta in meno di tre anni dopo che, nel 2014, l’impugnazione da parte del governo Rajoy di fronte al Tribunale Costituzionale trasformò il comizio indipendentista in un insapore processo partecipativo sul futuro della Catalogna.

Per Lídia Alberich e Joan Andreu Blanchart quello del primo ottobre rappresenta l’ultima tappa di un percorso iniziato nel 2009 ad Arenys de Munt, la cittadina culla della prima consulta indipendentista. Un referendum improvvisato e goliardico, quello di Arenys, ma che portò alla creazione dell’Assemblea Nazionale Catalana, l’associazione che ha per scopo il raggiungimento dell’indipendenza e della quale Alberich e Blanchart sono dirigenti.

Ad Arenys seppero tradurre un malcontento identitario e culturale che da tempo serpeggiava in parte della società catalana. “È un sentimento antico -spiega Alberich- che precede il franchismo la Repubblica. È il risultato di una diversa visione della realtà, di una mentalità forgiata da radici culturali che non hanno molto in comune con quelle spagnole.”

 “Quello dei catalani verso Madrid – aggiunge Blanchart- è sentimento che nasce dalla guerra di successione spagnola, dalla conquista di Barcellona da parte dei Borboni, e che si è fuso con un neo-indipendentismo de la cartera (del portafogli), espressione di chi è venuto da fuori e protesta contro un centralismo finanziario ritenuto iniquo”. Secondo uno studio diffuso da Blanchart, ammonta a sedici miliardi di Euro l’importo versato ogni anno dai cittadini catalani a Madrid. Di questi oltre la metà contribuiscono alle spese di funzionamento dello Stato spagnolo, privando le casse catalane di risorse indispensabili per finanziare lo sviluppo locale.

La Catalogna – conferma Alberich- rispetto ad altre comunità spagnole accusa un grave ritardo infrastrutturale. Il paradosso di essere una regione ricca ma carente d’ investimenti pubblici ha alimentato un sentimento d’ingiustizia nei confronti di Madrid. Il nostro è un popolo laborioso, los catalanes de las piedras hacen panes, (i catalani trasformano le pietre in pane) si dice in Spagna, ed il 1º ottobre sarà l’occasione per riconquistare la nostra dignità.”

Come nel 2014, allo scopo d’impedire la votazione, il governo Rajoy ha già presentato una valanga di ricorsi presso il Tribunale Costituzionale. Il 1º ottobre non accadrà nulla, avrebbe assicurato il Primo Ministro, che ha reso noto un viaggio ufficiale negli Stati Uniti in concomitanza con la data del referendum.

Alla votazione, secondo le stime, parteciperà il 54% degli aventi diritto. La vittoria schiacciante dei è scontata ma molti cittadini rimarranno a casa, ritenendo illegittima la chiamata alle urne. Per Lídia Alberich la scarsa partecipazione non comprometterebbe la credibilità del referendum. “In democrazia – sostiene- vale la regola della maggioranza. Delegittimare la decisione uscente significherebbe far prevalere la volontà del 46% degli elettori, cioè della minoranza”

L’uscita della Catalogna dall’Europa è stato uno dei leitmotiv della campagna di Madrid. Secondo i Trattati della UE l’adesione di un nuovo Stato è vincolata all’approvazione unanime del Consiglio d’Europa. Madrid ha lasciato intendere che potrebbe votare contro i fratelli catalani, orientamento che seguirebbero anche i governi di Roma e Parigi, entrambi preoccupati di fornire un valido deterrente alle forze politiche separatiste.

Lídia Alberich non sembra preoccupata da questa eventualità. “Ci sono diversi modi di stare in Europa – spiega- si può aderire a Schengen e all’ EFTA, come la Norvegia, oppure optare per la soluzione britannica. Di una cosa appare tuttavia sicura: sarà l’Europa a non poter rinunciare alla Catalogna, al suo posizionamento strategico nel corridoio mediterraneo ed alle capacità logistiche del porto di Barcellona”.

Per Blanchart il pericolo di uscita dalla UE ed il conseguente abbandono dell’Euro come moneta è pura propaganda. Una strategia del terrore messa in atto da Madrid per essere a corto di argomenti che possano convincere i catalani a rinunciare all’indipendenza. “Ormai – aggiunge- siamo ad un punto di non ritorno, non c´è più margine per compromessi.”

La rottura di cui parla Blanchart sembra materializzarsi anche nell’agenda politica delle ultime ore. Mentre a Madrid il Tribunale Costituzionale sospende il referendum e vieta ai sindaci  catalani di prendere parte alla votazione, il Parlament, l’assemblea catalana, approva la  Ley de desconexión, la legge quadro che guiderà la secessione in caso di vittoria dei .

Neppure i tragici eventi de las Ramblas sono riusciti a rimarginare la ferita. L’unità è durata il tempo dei proclami per poi soccombere alle critiche del governo centrale nei confronti del responsabile degli interni della Generalitat, reo d’aver distinto fra morti catalani e morti di nazionalità spagnola, ai fischi che hanno accompagnato la visita ufficiale del Re ed ai risentimenti per la decisione di Madrid di rinviare l’adesione dei Mossos (la polizia catalana) all’Europol, privandoli così dell’accesso ai preziosi dossiers dell’antiterrorismo europeo.

“In occasione degli attentati, dice Lídia Alberich, la Catalogna ha mostrato il volto più nobile: la solidarietà, la reazione composta, la trasparenza delle forze dell’ordine, impegnate nel denunciare le notizie false che circolavano sulle reti sociali.  Con il cellulare decorato con i colori della bandiera catalana, rilegge i tweet più significativi pubblicati dopo gli attentati: “è quando ti accorgi d’aver guadagnato il consenso dei più insospettabili che capisci d’aver vinto, conclude.”

L’undici settembre in Catalogna si commemora la conquista di Barcellona da parte delle truppe borboniche. Per i catalani è il Día Nacional de Cataluña o più semplicemente la Diada. Un giorno triste per i sostenitori dell’indipendentismo. Eppure, le onoranze funebri sulle tombe degli eroi della resistenza, che un tempo accompagnavano le celebrazioni, sono state sostituite da una marcia per l’orgoglio identitario che non ha pari in Europa. Ogni edizione mobilita centinaia di migliaia di manifestanti che scendono in strada con la Estelada, la bandiera catalana, inneggiando all’indipendenza. Quella del 2017 potrebbe essere l’ultima edizione sotto i Borboni. Poi, preso atto che la ferita non si rimargina, si potrebbe optare per l’amputazione. Per la Catalogna, la Spagna e l’Europa potrebbe essere l’anno zero.

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