A Viterbo nel 1471 a scatenare la guerra è l’eccessiva abbondanza di spremuta d’uva. Ce n’è troppa

di Luciano Costantini

Troppo vino fa ubriacare, può anche scatenare guerre interminabili, fatte di diffide, divieti, scontri politici, perfino possibili scomuniche papali. Anche in questo caso Viterbo è in partita, gioca la sua in uno dei tanti casi che rientrano nella dinamica delle vicende storiche. Il vino, pure se in periodi e situazioni diversi, è stato al centro di contese che hanno travalicato i confini naturali della Tuscia e oltrepassato limiti temporali che vanno a sfiorare l’assurdo. Un esempio? Oggi sul tavolo della Commissione Europea c’è un progetto che vorrebbe fissare una gradazione alcolica più bassa anche per i vini Dop e Igp. In poche parole, idratare il dolce nettare di Bacco in omaggio al discutibile precetto di “ripristinare l’acqua nel prodotto a base di vita”. Sarà, anzi già è, un nuovo casus belli. L’esito, ovviamente, è ancora incerto, di sicuro ancora lontano nel tempo. Nell’attesa del pronunciamento delle massime autorità europee sarà meglio tornare a qualche secolo indietro. A Viterbo nel 1471 a scatenare la guerra, non è l’acqua nel vino, ma l’eccessiva abbondanza di spremuta d’uva. Ce n’è troppa. E si apre un problema, non da poco, di sovrapproduzione. Scrive lo storico Giovanni Iuzzo che “tutte le botti si empiero, vecchie e nuove, e più di mille ne vennero da fore della terra. Il vino era in tanta quantità che non trovava a vendere. E furo le vendemmie asciutte, le uve bellissime e furo piene le tine grandi, e ancora tine di farina”. Un altro illustre storico viterbese, Nicolò della Tuccia, racconta che molti viterbesi ricavarono cantine nelle proprie abitazioni, scaricando la terra di risulta lungo i fossati, presso porta della Verità, fino a riempirli rendendo in tal modo più difficile contrastare eventuali attacchi portati alle mura cittadine. Vendemmia esagerata, vino in grandissima quantità e non soltanto come frutto di una stagione eccezionale, ma perché negli anni precedenti i vigneti si sono diffusi a macchia d’olio su terreni non più devastati da guerre infinite. La pace, insomma, ha permesso all’agricoltura di rifiorire, ai vigneti di crescere ed espandersi. Viterbo nei primi anni Settanta del quindicesimo secolo registra una produzione di vino che va ben oltre il proprio fabbisogno. Un vantaggio? Tutt’altro. E’ costretta, invece, a porre un argine ai vini che arrivano in città dai paesi vicini. Così scattano i decreti comunali per bloccare l’introduzione dei cosiddetti “vini forestieri”. Scarsi i risultati. Le autorità amministrative si rivolgono allora al papa perché venga in aiuto alla popolazione che non solo vino beve, ma che di vino vive. Richiesta accolta. Paolo II°, il veneziano Pietro Barbo, emana una bolla con la quale vieta l’introduzione di vino a Viterbo purché resti sotto i 48 bolognini (baiocchi) al barile. Un limite che da una parte contingenta il prodotto in entrata e dall’altra punta a eliminare manovre speculative sul mercato interno. Non funziona, tanto è vero che papa Sisto IV° inasprisce il divieto e permette l’introduzione del solo “moscatello” e del “navigato” o “vino di mare”, più precisamente vino di Grecia, malvasia spagnola, vernaccia sarda. Tutto in ordine, ma niente a posto, perché le restrizioni aguzzano come sempre l’ingegno e la norma papale viene aggirata ricorrendo a dispense o a favori di autorità compiacenti che evidentemente, oltre ad apprezzare il vino, sono sensibili al tintinnio dei piatti e delle monete. Un male endemico presente ovunque e in tutti i tempi. A estremi mali estremi rimedi: il Comune è costretto a chiedere solennemente e ufficialmente al pontefice di colpire con la scomunica e una pena pecuniaria tutti coloro che violano i limiti fissati per l’import di vino. Sisto IV° questa volta fa orecchie da mercante, convinto che sarà il tempo a risolvere il problema. Vero, solo che trascorreranno quattro secoli, perché nel 1870 la richiesta avanzata dal Comune al papa è ancora formalmente aperta e dunque in attesa di risposta. Quando Viterbo entra a far parte del Regno d’Italia la produzione, lo smercio e tutte le attività connesse al vino non sono più una priorità da affrontare e risolvere. Semmai è la difesa della sua qualità, Dop e Igp che sia, ma è questione che arriverà sul tavolo della Ue, e non più del papa, soltanto un secolo più tardi.

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