Ronchey e Strinati in dialogo per scavare nel sottosuolo creativo di Vicino Orsini

di Paola Maruzzi

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Dopo la serata inaugurale con Corrado Augias, il festival bomarzese “In arte Vicino” entra nel vivo con il dialogo tra due mostri (nel senso latino del termine, di due prodigi) della storia dell’arte: Silvia Ronchey, docente all’Università di Roma Tre, e Claudio Strinati, Segretario Generale dell’Accademia Nazionale di San Luca, hanno omaggiato il quinto centenario dalla nascita di Pierfrancesco Orsini indagando l’originale rapporto tra quest’ultimo e la sua creatura, il Sacro Bosco appunto.
Per capire cosa abbia spinto Orsini a partorire il mostruoso giardino scultoreo, facendone una proiezione di se stesso, bisogna ricollocare il personaggio nel suo orizzonte culturale di appartenenza. È questa la linea filologica suggerita da Strinati: “Orsini è di fatto il committente del Sacro Bosco ma, al tempo stesso, ne è anche l’autore. Tra le due figure c’è una perfetta coincidenza, una sovrapposizione che trova nel Rinascimento la sua massima espressione. Un esempio illustre è rappresentato da Isabella d’Este”.
Fissata la cornice, Strinati continua a scavare nel sottosuolo del processo creativo tirando in ballo i due referenti culturali con cui Orsini ha inevitabilmente dialogato: i Medici e i Farnese, le due casate nobiliari che nella gittata umanistico-rinascimentale hanno più di tutti attinto al serbatoio di un’antichità classica che, proprio in quegli anni, cominciava a
venire alla luce grazie ai primi scavi archeologici. “In particolare la cultura farnesiana – continua Strinati – ha insegnato la perlustrazione dei giganti dell’antichità”. Snodo cruciale è la campagna di scavi delle terme di Caracalla, promossa non a caso dai Farnese, in cui riaffiorano le immani statue che ispireranno tanti progettisti rinascimentali.
“Al visitatore d’oggi il Sacro Bosco apre una foresta di simboli – spiega Silvia Ronchey citando Baudelaire – ma tuttavia non bisogna pensare che ciò che è percepito come oscuro sia destinato a rimanere tale perché la rivelazione è parte del processo. Il Sacro Bosco è il tal senso epifanico.
Ecco quindi che bisogna ricalibrare la sacralità di questo luogo in senso diverso, come suggerisce l’etimologia della parola che richiama il sacello, vale a dire ciò che è in grado di contenere qualcos’altro: l’arte di Orsini esprime le memorie di un sottosuolo mediate dal mondo post bizantino che si schiude con il nostro umanesimo, dal la spiritualità pagana del
Rinascimento, dalla migrazione della cultura platonica che da Bisanzio arriva nella Firenze di Marsilio Ficino”.
Tocca, a conclusione dell’incontro, a Strinati il compito di ricordare la triste parabola e la successiva rinascita del parco: quando Pierfrancesco, detto Vicino, Orsini muore il 28 gennaio del 1585 il giardino sfiorisce con lui.
Il declino durerà diversi lustri, finché non arriverà il pittore surrealista Salvator Dalì che, in quelle deformità, riconoscerà se stesso. Dalì riapre i “serbatoi” del sottosuolo e getta un ponte ideale che arriva fino a noi, fino all’arte contemporanea nel segno della quale il Sacro Bosco ha scelto di festeggiare i suoi 500 anni “affratellandosi” con il Giardino dei Tarocchi di
Niki de Saint Phalle, il Giardino delle Meraviglie di Paolo Portoghesi, Hic terminus haeret di Daniel Spoerri e la Scarzuola di Tomaso Buzzi.
Il festival, curato da Antonio Rocca, lo storico dell’arte di cui entrambi i relatori si sono detti debitori in tema reinterpretazione dei luoghi del parco, proseguirà con un ricco calendario di eventi fino al 15 settembre.
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