Tuscia in pillole. Le corone di Canepina

di Vincenzo Ceniti*

santa Corona

Due corone per Canepina. La prima ci rimanda alla patrona santa Corona, squartata viva per amore di Dio ai tempi di Marco Aurelio Antonino nel II sec. Viene ricordata ogni anno il fine settimana successivo al 14 maggio con processione, messe e feste popolari. Quest’anno il 17-18 maggio.

La seconda l’abbiamo intrecciata con l’alloro olimpico per santificare il piatto di “maccaroni” (volgarmente detti “fieno”) e di “ceciliani” delizia dell’umanità e cibo degli dei che ebbi l’occasione di far miei in un rito di iniziazione dei primi anni Sessanta del secolo scorso nell’intimità della camera da pranzo di casa Venerina, una signora allora di mezza età che gestiva un bar-osteria sulla via centrale del paese frequentato dagli anziani del posto per le sorsate di vino e il tressette.

Venerina, che il Signore l’abbia sempre in gloria, mi accolse più volte con alcuni amici nella sua abitazione al riparo da sguardi indiscreti e curiosi dei paesani. La sala da pranzo era di passaggio alla camera da letto del nonno, costretto pertanto a starsene rinchiuso lì dentro per tutto il tempo del pranzo. Venerina ci deliziò da par suo con “maccaroni” e “ceciliani”, a quei tempi insuperabili. E lo sono tuttora. Oggi quell’osteria, grazie a Dio, si è evoluta in trattoria per merito del  figlio Felice.

Il vero salto di qualità Canepina lo fece però qualche anno più tardi, intorno al 1965, quando un operatore del posto, tale Daniele Raggi, detto Lelle, allestì poco fuori del paese in bella posizione panoramica, lungo la rampa per Viterbo, il ristorante Selva Luce (dal nome della località) che dette più ordine e dignità a quei due piatti  di cui straparlo senza ritegno. Quel ristorante da tempo non c’è più. Una vulgata fantasiosa ci darebbe ad intendere che Dante nel raggiungere Roma nel Giubileo del Trecento si sia fermato proprio nei boschi di Selva Luce che lo ispirarono per la selva oscura.

Ma veniamo al dunque. I “maccaroni” vengono da un impasto di  uova, acqua  e farina tirato a mano, leggerissimo, che una volta spianato, si riduce in tagliolini con un coltello a lama molto alta e manico speciale. Appena scolati, i “maccaroni”vengono messi per alcuni secondi a rabbrividire in acqua fredda e poi sdraiati  su un panno di canapa per disidratarli ed alleggerirne il peso, prima di essere serviti con ragù (originariamente a base di rigagli di pollo) e pecorino romano. A proposito di canapa, va ricordato che il toponimo del paese deriva probabilmente da cannabinus in riferimento alla coltivazione e alla lavorazione della canapa, antica risorsa per gli abitanti del posto. Non per nulla agli inizi degli anni Mille la località si chiamava Canapina.  I ”ceciliani” sono invece  una sorta di bucatini (acqua, uova e farina) anch’essi ricavati a mano utilizzando però un ferro a maglia. Stesso condimento dei “maccaroni”.

Ad onor del vero, Canepina non è stata mai un granché. L’adagio “passa e cammina” era riferito alla via impervia che l’attraversava in direzione di Viterbo. Era così irta che i carretti trainati da cavalli o somari non potevano fermarsi (da qui “passa e cammina”) per le difficoltà di riprendere il cammino. In ogni caso il paese è sempre stato in posizioni di retrovia nello scacchiere della Tuscia, con scarso appeal su avventori e forestieri. Un grumo di vecchie case abbarbicate ai resti di un maniero d’impianto medioevale e un paio di chiese come ce ne sono tante  altre in Italia.

Questo fino alla metà degli anni Ottanta, quando un sindaco di allora, Rosato Palozzi, mise mano ad un’operazione di marketing senza precedenti con il recupero delle antiche cantine fuori uso che da secoli perforano il masso tufaceo su cui poggia il centro storico.

L’anno della rimonta data 1985, quando quel sindaco sostenne l’idea della coop. “Primavera ‘85” (allora presieduta da Wando Ferri) di mettere in campo le specialità della casa (“maccaroni” e “ceciliani”) in estemporanee tavolate in piazza ad uso di paesani e forestieri. Il successo, incoraggiante perché imprevisto, consigliò un sistematico trasferimento della performance gastronomica  dalla piazza alle cantine che nel frattempo si andavano attrezzando, a partire da quella matrice di Santa Corona. Quello fu anche l’anno dell’allestimento  in un vecchio convento del  “Museo delle tradizioni popolari” che avrà tanto successo negli anni successivi, anche per merito del direttore scientifico Rino Galli.

Oggi le cantine vengono aperte in occasioni particolari, specialmente in ottobre per le “Giornate della  castagna”. Ce ne sono tante. Le indichiamo alcune in dialetto locale: A Ceppa e Bestatoo, A Magnatoa Bassa (Cantina  ASD Canepinese), A Mescala, A Spianatoa, A Tiella, Cantina del Donatore, Cantina Pro-Loco, Eggovo de Brigandi, E Radiccio, E Zappori d’a nonna Speranza. Bon appetito! 

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Una cantina di Canepina

Nella foto cover la processione di santa Corona

 

L’autore*

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

 

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