Ripartire?

di Laura Sega Marchesini*

Come sfuggire al rischio di naufragare miseramente nelle acque torbide della retorica o di precipitare, nel tentativo di eluderla, nella banalità del luogo comune?
Se un contributo, dunque, posso dare, al riparo dai facili sensazionalismi che molto appassionano il mondo della letteratura politicamente corretta, lo farò aggirando ogni ordinaria narrazione personale di cui lungi da noi credere poter suscitare un qualche minimo interesse.
Sono passati poco più di due mesi da quando quella sera, poco prima della cena, abbiamo appreso che ci saremmo dovuti fermare. Tutti.
Basta incontri, basta abbracci, basta acquisti, basta scuola, basta lavoro.
In questo schieramento di “basta” in fila per sei col resto di due, ma a ben vedere molti di più, ci siamo arresi all’idea che era nostro l’onere e l’onore del salvataggio del mondo. Un mondo diventato ex-abrupto insicuro, tremulo e fragile sul precipizio d’un futuro precario. Un mondo che, appesantiti dal tumulto frenetico e scomposto d’una informazione selvaggia al confine col terrorismo, abbiamo faticato a riconsiderare.
Ma quand’anche fosse stato veicolato impropriamente, il “problema” c’era e c’è.
Nessuno ha potuto ideologicamente, oltreché materialmente, ritenersi avulso da ciò che stava accadendo. Qualcuno ha incolpevolmente asserito che il virus fosse una nemesi necessaria piombata tra capo e collo sul destino dell’uomo come punizione per i mali che procurò alla terra. Altri hanno legittimamente ceduto alle più affascinanti quanto inquietanti tesi complottistiche.
Col passare dei giorni però, sbalorditi e preoccupati, tutti abbiamo arrancato in un quotidiano apparentemente disancorato da ciò che consideravamo “normalità”.
Non sono certo mancate le “visioni” più mistiche per le quali si vorrebbe attribuire al confinamento forzoso dagli affetti e dalle abitudini un’occasione di ascesi verso una dimensione umana più spirituale. Altre ancora lo vorrebbero annoverare, per un impulsivo seppur giustificabile spirito reazionario, tra le avanguardie di qualche ardito disegno illiberale.
E così, nel tentativo disperato di dare un senso ad un “prima” che avesse legittimato le ardue sentenze di un “poi”, tra un canto al balcone e un arcobaleno al vento si è lasciato scorrere i fotogrammi della vita di ciascuno. Le immagini e pensieri si sono rincorsi nel comporre le didascalie delle proprie stra-ordinarie storie individuali di uomini e di donne calati malvolentieri in una favola estranea frammista a tragedia, accettando persino di sprofondare nel puerile elogio della frittata o, che so, di quel lavoro all’uncinetto che se non fosse stato per la “pausa-virus” non sarebbe mai stato terminato.
Nel frattempo le case si sono profumate d’arrosti e d’allori assumendo la forma di un sempiterno cantiere filantropico, un ventre materno e rassicurante che ha accolto un “noi” in viaggio verso un’umanità che non speravamo di possedere e così, raccolti intorno a un “fare” operoso, come in un rito iniziatico, se n’è celebrata la lentezza.
Ogni gesto ha riacquistato il peso “grave” del suo valore. Valore che ne sedimenta i sentimenti, ne cura le emozioni, ne porta a galla le ansie e ne esorcizza le paure.
Lo scorrere del tempo è sembrato sospendersi nel restituire consapevolezza alla vita mentre il riappropriarci d’una dimenticata noia creativa rendeva palese che la sua eccezionalità risiede proprio nella sublimazione della semplicità coltivata. Ed è proprio sperimentando la bellezza d’un benessere antico che appare con cruda amarezza quanta solitudine lascia dietro e dentro di sé quel tempo consacrato all’esistere ma rimandato al vivere. Ciononostante, la quarantena da misura estrema riservata alla tutela dei più fragili si fa sintesi e rappresentazione apologetica d’un malessere personale e collettivo da cui diventa sempre più difficile distanziarsi.
Migliori, peggiori, più forti, meno forti?
Come ci troverà, dunque, questo nuovo mondo frale e incerto?
Ce lo chiediamo annaspando nel mare magnum d’una informazione mutata, stravolta, talvolta vilipesa che non si riconosce nemmeno nei suoi paradigmi comunicativi.
Siamo piccoli, noi umani destinati alla fragilità grandiosa, temporanei ma partecipi del miracolo creativo e riottosi alla rinuncia delle potenzialità ipotecate.
Percepiamo il disagio, l’incognita incombente sul futuro e la vestiamo d’ogni dubbiosità terrena. Ci esponiamo ad un romantico autoconservativismo che porta a considerare “sicuro” ciò che è passato a tal punto da accomodare la mente e il cuore all’ombra delle incertezze.
Sensibilizzati, ognuno a proprio modo, alla conoscenza gridiamo alla mancanza della libertà che vediamo offesa e ci domandiamo quale migliore presidio porre alla sua difesa.
Non ci sottrarremo alle prove globali cui siamo ineluttabilmente chiamati, ma dovremo darci l’opportunità di ridefinire quella libertà immaginandoci e desiderandoci “nuovi” per consentire così alla politica, all’arte, alla musica, alla poesia, all’amore di vigilare su di lei.
Ripartire? “Morire, dormire. Dormire, forse sognare..”

Laura Sega Marchesini

*Laureata in economia. Scrittrice di saggi e racconti. Cantante e cultrice di musica.

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