Pizzeccacio: Il carretto passava e quell’uomo gridava, “Gelati”

di Gianluca Braconcini*

L’arrivo del sole e delle belle giornate risveglia in tutti noi la voglia di gustare un bel gelato; l’ alimento più estivo che ci sia ricco di freschezza, dolcezza e cremosità….insomma un vero e proprio peccato di gola della stagione calda. La storia del gelato è molto antica ed è piena di leggende, aneddoti e storie curiose, già Plinio il Vecchio parla del commercio di neve raccolta sulle montagne più alte e conservata in luoghi costruiti appositamente. Tra i ricordi d’infanzia dei lettori più “maturi” c’è sicuramente quello del carrettino dei gelati e del suo particolare scampanellio che compariva all’improvviso. Rivestito di lamiera zincata, aveva due o tre coperchi lucidi, anche a forma di cono, sotto i quali si manteneva fresca quella dolce specialità…due o tre gusti e non di più.  L’uomo che lo trainava, sempre col viso sorridente e gioviale, indossava di solito un camice bianco, un capello dello stesso colore oppure azzurro. Arrivato sulla piazza si fermava solitamente all’ombra di qualche albero e dopo aver bloccato le ruote con dei sassi, tirava fuori il contenitore con le cialde ed i coni, quello coi soldi, impugnava infine la tipica campanella e facendola suonare richiamava l’attenzione di tutti quelli che si trovavano lì a passare. Dopo poco tempo quel carrettino veniva completamente circondato  da chi non vedeva l’ora di gustare quella bontà; i bambini per primi. Nelle giornate estive della Viterbo degli Anni Cinquanta e Sessanta, grandi, ragazzi e piccini aspettavano con gioia e trepidazione l’arrivo di un ometto di statura bassa, vestito con una giacca bianca che con andatura cadenzata ed oscillante, trainava a mano il suo carrettino e durante le ore più calde gridava a gran voce: “Gelatiiiii!, Gelatiiii!…queste parole significavano per i viterbesi di quegli anni l’arrivo della stagione calda. Tutti accorrevano e si accalcavano intorno a quel signore dall’aria calma e serena che lentamente sollevava i coperchi lucidi di metallo che coprivano le vaschette contenenti  gelato e sorbetti di vari gusti che emanavano all’istante il profumo di bontà tipica d’una volta. Quel gelataio buono e pieno di iniziative era conosciuto da tutti i viterbesi e che in tono confidenziale chiamavano “Pizzeccacio”. Dante Costantini, questo era il suo nome, era nato il 21 luglio del 1894;  rimase orfano in età giovanile e dopo aver fatto il raccoglitore di cicche, il cui tabacco poi rivendeva ai fumatori di pipa e lo strillone di giornali, seguì il mestiere del padre Giacomo, detto “Jachella”, produttore e venditore di gelati durante le feste patronali di Viterbo e provincia. Il suo soprannome così divertente forse gli deriva da quello di uno dei suoi fratelli chiamato “Il Cacino”. Il piccolo Dante ebbe un’infanzia molto difficile perché oltre alla perdita della madre si ammalò di poliomielite e mentre i suoi fratelli trovarono fortuna altrove lui rimase a Viterbo dove venne accolto e trattato  come un figlio da una coppia che gestiva in via dell’Orologio Vecchio un’attività di “Vino e Cucina”. Pizzeccacio era un lavoratore caparbio ed intraprendente, d’inverno aveva la sua bottega en plein air all’angolo tra via Teatro del Genio con via dell’Orologio Vecchio e  preparava le caldarroste,  usando un bidone attrezzato a braciere, che poi  vendeva confezionate con dei cartocci di fogli di giornale. Quello era un punto di vendita strategico perché da lì passavano i viterbesi di tutte le età che andavano al cinema Genio per assistere alle prime dei films. Quando arrivava il Carnevale, Dante con “fare fregoliano”, si trasformava in venditore professionista di  stelle filanti e coriandoli che teneva in bella mostra sul suo banchetto allestito per l’occasione in piazza delle Erbe. Negli altri periodi dell’anno vendeva di tutto: bottiglie vuote, lucido per scarpe, lacci, bruscolini, giornalie tante altri struffàji e chincaglierie. Ma la stagione migliore per i suoi affari era quella estiva…indossata la sua tradizionale giacca bianca vendeva gelati e sorbetti ghiacciati. La particolarità  di Pizzeccacio era anche quella di pubblicizzare i suoi prodotti con degli slogan, creati con un diccabbolario tutto suo, nei quali esaltava tutte le loro qualità. Le sue particolari caldarroste crastate e patolle te scallàono le mano, la panza e le merolle. Per non parlare dei suoi speciali coriandole zighirinati chi vinìvono da Udele (Udine) e Corfù; e delle stelle filanti a sdràppene che avevano secondo lui la qualità unica di espandersi a raggio proprio come le sfere di piombo di  un proiettile “Shrapnel”, da cui deriva il termine in dialetto. Nessuno scoprì mai perché nominasse queste provenienze e queste particolarità; magari per specificare che erano prodotti di importazione e quindi sicuramente migliori di quelli nostrani… sta di fatto che ahimè, non lo sapremo mai. Quando i clienti intorno al suo carrettino attendevano in fila di acquistare il gelato, Dante intento nella preparazione del prodotto richiesto ne proclamava con orgoglio tutta la sua qualità da abile venditore quale era: “Qué’ adè ‘l gelato de Pio Nono, sentìtolo quant’adè bòno!. Adè tutto visciolata e rosso d’òvo. Qué’ adè ‘l gelato de Papa Pio sentìtolo quant’adè fino!. L’arte del gelataio l’aveva imparata dal padre e da lui aveva appreso tutti i segreti;  preparava, utilizzando un vecchio macchinario che teneva nel suo magazzino,  due soli gusti di gelato, la crema e il limone, la sua vera specialità e li serviva in un bicchierino che costava 2 soldi;  nella doppia rotella di cialda realizzata con uno strano attrezzo che veniva invece 4 soldi ed infine nel rettangolo di cialda che costava mezza lira. Era un uomo di grande cuore e gli volevano tutti bene e col suo modo di fare scherzoso si faceva amare soprattutto dai bambini. Mi raccontava mio padre che ai ragazzi che lo aiutavano a spingere il carrettino lungo le  ripide salite della città regalava a tutti un conetto di gelato il cui sapore, vuoi per la fatica e per quel dolce ricordo d’infanzia ti faceva sentire talmente leggero da farti salire tra le nuvole; per chi aveva superato le terribili sofferenze della guerra gli bastava anche un semplice gelato per essere felice.  Con l’avanzare del tempo e degli acciacchi dovuti all’età, Dante decise di prendersi il suo dovuto e meritato riposo. E così, intorno al 1965-66  parcheggiò definitivamente  l’inseparabile carrettino con tutti gli attrezzi del mestiere nel suo piccolo magazzino di via Teatro Genio, poi prese un foglio di carta e con un lapis scrisse in stampatello: “Si Vende Motore Carrettino e Macchina del Gelato. Per acquisto rivolgersi a Dante Pizza e Cacio”. Si ritirò ormai vecchio e stanco all’Ospizio di San Carlo, che un tempo si trovava nel quartiere di Pianoscarano a Viterbo, tra le cure delle suore che lo assistettero con molto affetto e benevolenza fino al 3 giugno 1970.  Quel cartello che aveva scritto qualche anno prima con mano tremolante per l’emozione rimase attaccato su quella porta per un bel po’; forse qualcuno acquistò quel “prezioso” carrettino che fece la gioia di tanti bambini viterbesi di quel tempo.

 

*Cultore della storia viterbese

 

 

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