Le Case della vita.Via dell’Orticello. Nuove amicizie – I parte

di Maria Letizia Casciani*

NUOVE AMICIZIE
(I parte)

Durante il primo anno di liceo non ero riuscita a creare forti legami con i miei compagni di classe. Avevo avuto bisogno di tempo per ambientarmi. Bernardo il Paguro aveva tastato ben bene la nuova conchiglia e solo dopo un po’ aveva dato il suo benestare: si poteva procedere all’esplorazione dell’ambiente circostante.
Fu a partire dal quinto ginnasio, dunque, che, a poco a poco, mi riuscì di fare amicizia con alcuni dei miei compagni.
Fino a quel momento il mio scudo protettivo era stato costituito dal legame rassicurante con una ragazza del paese con cui avevo fatto le scuole a partire dalle elementari. La conoscevo da una vita, eravamo molto amiche e questo non mi costringeva a stringere rapporti con altri. Ci volle un po’ di tempo, ma riuscii ad allentare la presa e ad aprirmi con gli altri.
In classe c’erano – come capita in tutti gli ambienti – persone che non mi piacevano, ma anche alcune che risultavano, almeno a prima vista, simpatiche. Cominciai a studiarle e ad avvicinarmi a loro, a ricreazione, durante l’ora di ginnastica o all’uscita.
Una persona in particolare, mi parve subito alla mano e cordiale: legammo in breve tempo. Era molto diversa da me, sotto tutti i punti di vista, ma scoprimmo che andavamo perfettamente d’accordo.
Aveva un carattere aperto e cordiale, sorrideva spesso – al contrario di me, che avevo quasi sempre un bel broncio stampato sul viso. Quello che mi attirava in lei era l’atteggiamento fiducioso verso la vita, la convinzione – che traspariva evidente da ogni suo atto – che non esistessero problemi insormontabili, ma che ogni cosa, prima o poi, trovasse una sua soluzione.
La sua fiducia nei confronti della vita e del futuro riusciva sempre a stupirmi: là dove io vedevo un problema ingarbugliato, lei individuava subito l’elemento capace di risolverlo. In poche parole, era l’ottimismo concretizzato in persona. Io giocavo a fare la nichilista, sulla scia delle mie letture di quegli anni, lei, al contrario, metteva insieme fiduciosamente, uno dopo l’altro, i mattoni dell’esistenza che già allora aveva in mente di costruire.
Quando ce ne andavamo insieme a spasso per il Corso eravamo un po’ buffe da vedere: lei alta alta, con il corpo un po’ a pera, i lunghi capelli biondi e sottili, la pelle diafana, quasi trasparente, un’andatura spigliata e sicura; io, piccola, scura, il viso segnato dalle occhiaie, con lunghi capelli castano scuro, chiusa a riccio nella mia camminata veloce ed impacciata, influenzata dalla convinzione di essere una persona di scarsa attrattiva.
Le nostre differenze, tuttavia, avevano fatto da collante e passavamo ore a chiacchierare e a ridere. Con lei imparai il valore della leggerezza, della vita presa così come viene. La guardavo ammirata, consapevole delle nostre differenze, senza che esse fossero un elemento divisivo.
La mia nuova amica veniva da una famiglia di industriali, era una di quelle persone abituate alla ricchezza, senza però esserne schiave. Aveva una signorilità innata. Certo, faticava a capire il punto di vista di chi, come me, poteva permettersi una cosa per volta e doveva ogni mattina pensare a come investire le cento lire che aveva ricevuto prima di uscire: giornale? sigarette? colazione? risparmiare per una spesa più consistente?
Come accade con i veri signori, in lei non c’era il gusto di esibire, né quello di ostentare. Pur indossando capi costosissimi, aveva il vezzo di nascondere le etichette, cosa assai rara di quei tempi.
Cominciammo a frequentarci in ogni minuto libero, ma la nostra amicizia era ostacolata dal fatto che vivevamo in paesi molto distanti tra loro e dal fatto che non avevo ancora il telefono in casa. In classe divenimmo inseparabili.
Dopo mille insistenze da parte sua, accettai di essere ospite a pranzo a casa sua. La cosa mi dava un po’ di pensiero: ero consapevole di non sapere – per via della scarsa dimestichezza acquisita con le regole del galateo – come ci si comportasse nelle occasioni ufficiali e questo generava in me molta ansia. Avevo anche la certezza di non poter ricambiare l’invito: mi vergognavo, infatti della povertà della mia casa, della rumorosità della mia famiglia, in particolare di mio nonno – che ormai viveva stabilmente con noi e che arrivava a casa spesso un po’ alticcio, avendo addosso abiti maleodoranti, perché odiava cambiarsi e lavarsi.
Accettai comunque l’invito. La mia amica ne fu molto felice.
All’uscita da scuola trovammo la macchina del padre ad aspettarci. Non appena ci vide arrivare, uscì e venne a presentarsi: con i suoi modi compìti, sembrava un vecchio lord inglese. Alto come sua figlia, magro, stempiato, la pelle chiara e trasparente, un bel sorriso cordiale ad attraversargli la faccia.
Fu molto premuroso e gentile, si informò sul mio andamento a scuola, sulla mia famiglia e sembrò molto interessato a ciò che avevo da dire. Quello che mi colpì più di tutto fu il grande affetto che dimostrò, in ogni suo atto, in ogni sua frase, verso sua figlia. Ascoltava davvero quello che lei aveva da dire e faceva osservazioni che non erano velate di disapprovazione né di sarcasmo, come quelle alle quali ero abituata con mio padre.
Realizzai improvvisamente da dove provenisse il senso di sicurezza che lei emanava di continuo e che mi aveva colpito tanto positivamente: aveva una famiglia che credeva in lei e che le trasmetteva un affetto caldo e continuo. Ne ebbi una ulteriore conferma una volta varcata la soglia di casa sua e conosciuto il resto della famiglia.
La mamma era adorabile: guardava sua figlia con occhio amorevole e la chiamava continuamente “Chiccolina”.
Lei si beava di tutto quell’affetto, lo assorbiva come fosse la cosa più naturale del mondo, non lo percepiva come schiacciante e non si ribellava ad esso, come sarebbe stato naturale per una adolescente. Era felice. Tutto qui.
Fui accolta con grande affetto e, entrando nell’ampio tinello, vidi che avevano apparecchiato come si fa per le grandi occasioni. Mi sentivo confusa, ma anche contenta per quella accoglienza.
I miei timori circa la mia conoscenza del galateo, una volta seduta a tavola, si rivelarono assolutamente fondati: che fare di tutte quelle posate? Quale bicchiere si doveva usare, tra tutti quelli che avevo davanti? Improvvisai.
Alla fine arrivò un bel dolce, alla panna, con delle magnifiche ciliegine verdi. Ebbi, allora, il mio momento “Charlot”: una delle ciliegine cadde sul piatto; provai ad inseguirla col cucchiaino, ma riuscii solo a farla rovinare sulla tovaglia: la raccolsi, più veloce della luce, sperando di non essere stata vista da nessuno. Niente male, come esordio mondano!
Per tutti gli anni del liceo io e lei fummo grandi amiche: guardavo con ammirazione e voglia di emularla quel suo modo di fare deciso e volitivo, in cui non c’era traccia di arroganza. Non sapevo ancora che la sicurezza di sé ha radici profonde, che poggiano su un humus diverso da quello su cui la mia piantina era cresciuta fino a quel momento.
In quegli anni vivevo di disagio e ritrosìa, ero un’adolescente introversa e timida fino alla ritrosìa. Ero talmente chiusa in me, che una compagna di scuola mi chiamava “Ciccioriccio”, dal nome di un personaggio dei fumetti che leggevamo su una rivista di quegli anni che si chiamava “Doppiovvù”. In effetti, quel fumetto mi piaceva molto, forse per affinità: come lui, anche io ero un riccio.

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