Le case della vita. Verso via della Torretta

di Maria Letizia Casciani

“CHIUSA UNA PORTA, CI SI RIMETTE IN CAMMINO”

Quel pomeriggio di inizio gennaio del 1989, chiusi la porta di casa alle mie spalle.
Lasciavo tutto.
Avevo preso una decisione: lasciavo l’Uomo coi baffi, la sua casa, la sua famiglia, la vita che avevo immaginato di creare con lui. Uscivo di casa andando incontro ad un futuro nebuloso, incerto, ma in quel momento preferivo così.
Avevo bisogno di mettermi alla prova.
In tasca avevo trecentomila lire, giusto la cifra che mi sarebbe servita per pagare il primo mese di affitto della nuova casa, quella in cui avrei vissuto solo per un po’, o forse no.
Si trattava di un appartamento ammobiliato nel quale, fino a qualche mese prima aveva vissuto una vecchietta, morta da poco. I parenti avevano deciso di affittarla, in attesa di prendere decisioni su cosa farne.
Non avrei dovuto fare altro che poggiare le mie cose su oggetti che fino ad allora avevano caratterizzato la vita di qualcun altro. Era un po’ la metafora di una vita – la mia – che non aveva più ben chiara la sua collocazione nel mondo.
Intorno alla casa c’era un grande giardino, che creava un alone di silenzio, in una parte della città che era comunque in pieno centro: di quel silenzio e di quella pace avevo un gran bisogno.
Nei due anni che avevano preceduto la scelta di andarmene di casa, quelli che avevano seguito la mia guarigione, avevo toccato il fondo della mia esistenza, provando a risalire e sprofondando più volte.
Molte persone sono convinte che venire fuori da certe malattie renda migliori, che la vita assuma un nuovo significato e divenga migliore, come, accade nei film. Un lungo viale alberato ed illuminato dal sole: e tutti vissero felici e contenti, come nel miglior lieto fine.
Del mio film non riuscivo a vedere il lieto fine, nonostante il fatto che, agli occhi di tutti quelli che mi circondavano e che si sentivano il diritto di giudicare la mia vita, esso fosse davvero evidente.
“Ti rendi conto che hai vinto alla lotteria, vero?!” – mi dicevano.
No, non mi rendevo conto.
No, quella “lotteria” non era stata affatto divertente. In alcuni aspetti forse era vero che avrei dovuto sentirmi fortunata (io ce l’avevo fatta, là dove molti altri non erano sopravvissuti), ma, a dirla tutta, dopo certe “avventure”, la vita diventa un po’ un frutto avvelenato.
Niente – mai più – è uguale a prima.
Quando si getta uno sguardo dentro quell’abisso, quando si osserva quel buco nero, anche se si riesce ad allontanarsi da quell’orrido, una parte di buio resta dentro. E non c’è niente da fare. Una traccia oscura resta lì a segnarti per sempre. Non c’è medicina possibile, non c’è filtro magico che possa cancellare quello che è accaduto.
In quel momento della mia vita non riuscivo a prendere le distanze da quello che avevo vissuto.
Ero ossessionata dalla malattia, dal terrore che ricominciasse e questa ossessione mi impedì per un paio di anni di tornare alla vita. Non vedevo motivi validi per ricominciare. A quale scopo farlo? Perché darsi da fare? E se fosse tornata un’ambulanza a riportarmi via? Meglio attendere il destino lontani dalla vita, per non rimanere delusi.
Mi sentivo come quei cecchini che aspettano armati il ritorno del nemico. Misi intorno a me molti sacchetti di sabbia.
Mi chiusi in casa. Evitavo accuratamente di uscire, se non costretta. Non curavo più il mio abbigliamento. Passavo le mie giornate davanti alla tv, oppure ascoltando musica.
Diventai una persona intrattabile, rabbiosa.
Non avevo più voglia di studiare, nonostante mancassero pochi esami e la tesi per arrivare alla laurea. Anche quando mi trascinavo alla scrivania per dedicarmi a qualche pagina, vedevo scorrere le righe sotto i miei occhi, senza capire il senso del testo che stavo leggendo.
L’Uomo coi baffi – che nel periodo della malattia era stato attento e premuroso – si stancò ben presto della situazione. Preferiva trascorrere il suo tempo fuori di casa e la sera rincasava sempre più tardi. Nel tempo libero aveva ripreso ad andare a pesca, a correre, a disegnare, a fare regate. Senza di me.
Una sera, dopo una brutta discussione con me, mi disse, quasi sottovoce, ma rabbioso:
“Io, non ho bisogno di una moglie depressa!”
Quella moglie depressa ne prese atto. Fece un mucchio di sciocchezze ulteriori, alla fine delle quali decise che la soluzione migliore fosse quella di andare via.
Non fu una vendetta, ma, nonostante la grande confusione interiore, mi fu chiaro che avevo il dovere di ricominciare, a vivere, in modo autonomo, forse per la prima volta in vita mia.
In questa situazione drammatica e magmatica accadde una cosa che ebbe il potere di tenermi a galla: cominciai ad insegnare.
Non avevo mai pensato all’insegnamento, fino ad allora (anzi, una delle mie frasi preferite era stata: “Io, non insegnerò MAI!”).
Tramite alcuni amici, mesi prima, ero venuta a sapere che una scuola privata stava cercando insegnanti, anche alle prime armi, anche se non ancora laureati. Portai la mia domanda, convinta che non mi avrebbero mai chiamata.
Dopo pochi giorni, invece, cominciai.
In quella discesa verso il fondo, che era allora la mia vita, la disciplina del lavoro fu un vero toccasana.
Ogni mattina ero costretta ad alzarmi in orario, a lavarmi, a vestirmi, a truccarmi, ad entrare a scuola, a sorridere a colleghi ed alunni, ad essere lucida e chiara nelle spiegazioni.
Esattamente ciò di cui avevo un disperato bisogno, a livello esistenziale. Ordine e disciplina.
Tornare alla vita di prima era ormai impossibile. Tuttavia, nell’incertezza che avvolgeva il futuro, stavo scegliendo – come fa una lumaca alla quale hanno toccato le antenne, ferendola – di provare nuovamente ad uscire fuori. Stavo cercando di dare ancora una volta fiducia alla vita. Era pur sempre un primo passo.
Quel primo passo, però, segnò, come per un effetto domino, l’inizio della rivoluzione che imposi alla mia esistenza. Tutto il resto fu una conseguenza. La chiusura di quella porta “sicura” ne diventava l’emblema. Per la prima volta nella mia vita non cercavo appoggi, sostegni: iniziavo un percorso privo di certezze, ma solo mio.
Chiusa quella porta, mi avviai con decisione verso la mia nuova casa.
In via della Torretta.

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