L’album dei ricordi viterbesi: Armidoro e la sua gobba portafortuna

di Gianluca Braconcini*

Ogni città è fatta di bellezze, storie, curiosità e personaggi caratteristici; questi, di varia levatura sociale, spiccavano per intelligenza, comicità, bizzarria ed originalità e molto spesso, oltre a fornire motivi di commento e discussione, diventavano protagonisti di avventure talmente divertenti che hanno contribuito a scrivere l’album dei ricordi viterbesi. Uno dei tanti personaggi era Almidoro Costantini, conosciuto da tutti come “Armidoro”; era nato nel 1884 ed abitava in via del Suffragio. Era un ometto esile, piccolo di statura e deformato dalla gobba; con la sua vocina cantilenante ed il suo modo di fare rimaneva subito simpatico e benvoluto da tutti anche perché la gente era convinta che la sua gobba portasse fortuna. Frequentava quotidianamente il Caffè Schenardi dove era solito intrattenersi insieme al suo amico Parri, che per la legge dei contrari era invece alto e magro, a fare due chiacchiere e consumare il suo caffè giornaliero, che gli veniva costantemente offerto dagli avventori del locale. Per la sua fedeltà come cliente, Alfredo Fortini realizzò una statua di gesso che lo raffigurava e venne posta all’interno del locale, dove rimase fino ai restauri del 1987. Armidoro aveva una piccola bottega in via Garibaldi, dove realizzava i suoi ingegnosi prodotti “in cartoname”, come era solito definirli; la sua maggiore abilità era quella di costruire i lampioncini di carta colorati, nel cui interno si metteva una candela accesa, che venivano usati come ornamento sui balconi e finestre durante le processioni o le festività patronali. Con le sue abili mani creava inoltre aquiloni di tutti i colori, casette per il presepe, girandole di carta che si muovevano col vento; tutti oggetti che potevano essere acquistati al costo di mezza lira o poco più, come mi raccontava mio nonno e che erano i tipici giocattoli dei bambini di quel tempo. Le sue creazioni erano sempre presenti alle fiere o nelle piazze quando si radunavano i viterbesi per le feste “aricurdatore” dove Armidoro, con la sua tipica vocetta, reclamizzava i propri prodotti. Per arrotondare lo stipendio e sbarcare il lunario svolgeva anche dei piccoli lavori per le famiglie Marcucci, Fortini e Costaguti che spesso lo invitavano a pranzo o a cena e gli regalavano qualcosa. Aveva inoltre l’incarico di rimboccare giornalmente i lumini ad olio che ardevano davanti all’immagine del Santissimo Salvatore, che si trovava ai tempi sul ponte Tremoli ed ora spostata in via Cesare Dobici; la famiglia Costaguti oltre a fornirgli l’olio, lo pagava per questo lavoro. Durante i giorni del Carnevale viterbese girava per la città mascherato, con l’intenzione di non farsi riconoscere mentre si burlava di qualcuno…ma per le sue inconfondibili caratteristiche fisiche veniva subito “identificato” ; qualcuno poi, a sua insaputa, gli attaccava sulle spalle un foglio di carta con scritto il suo nome per cui mentre passeggiava per le vie del centro tutti lo chiamavano lanciandogli stelle filanti e coriandoli ed il povero Armidoro piuttosto dispiaciuto non riusciva a capire come mai potessero riconoscerlo. Per il suo modo semplice, la sua credulità e la tipica “gojeria” viterbese che lo accompagnava, stimolava la creatività goliardica dei tanti buontemponi, che lo coinvolgevano in scherzi particolarmente spassosi, a volte anche pesanti, nei quali si faceva trascinare anche per tener fede alla sua personale caratterizzazione. Tra i tanti va ricordato quello organizzato dal noto burlone viterbese, il Sor Checco Marcucci. D’accordo con un gruppo di amici invitò alcune persone, tra cui Armidoro, a far merenda nel suo villino presso il Respoglio e, con la scusa che si sarebbe stati tutti più freschi, aveva allestito un lunga tavolata all’interno di una vasca utilizzata per la raccolta dell’acqua per irrigare, chiamata in dialetto “lega”, che si trovava sotto una grande pergola d’uva. Quando la merenda si concluse e tutti stavano ancora “a seda co’ la panza piena” ad un segnale del Sor Checco, un contadino iniziò a riempire la vasca. Tutti gli invitati preoccupati per quello che sarebbe successo saltarono subito fuori della “lega” portandosi dietro tavoli e sedie; invece il povero Armidoro non riuscì a scavalcare il muro e rimase bloccato all’interno della vasca mentre l’acqua continuava ad affluire. Preso dal terrore di morire affogato cominciò ad urlare disperato: “A regà tirate su ‘sto pòro cristiano ciùco ciùco, nun vòjo murì affugàto!”. Quando l’acqua gli era arrivata a metà gambe, due compari del Marcucci lo tirarono su, lo misero seduto e lo asciugarono; Armidoro era talmente spaventato che rimase impietrito e dovettero portarlo via seduto sulla sedia tra le risate ed i commenti divertenti di tutti gli invitati. La sua inclinazione politica era rivolta verso il fascismo tant’è che si vantava di aver partecipato addirittura alla marcia su Roma, tuttavia il suo era solo un atteggiamento che veniva tollerato da tutti. Quando capitava che una squadra di camerati dovesse andare a Roma a partecipare ad una manifestazione, Armidoro indossava la camicia nera, li accompagnava alla stazione salutandoli in maniera romana e con piglio fiero rassicurava tutti dicendo: “Annate via tranquilli che a Viterbo ce penso io!”. Armidoro salutò silenziosamente la sua città nel 1939 e, se di lui rimangono rare fotografie e qualche statuina di gesso che si troverà chissà dove, la sua ingenuità e la sua simpatia hanno lasciato sicuramente un piacevole ricordo nelle “brefàcole” viterbesi.

*Cultore del dialetto e della storia viterbese

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