Un racconto breve è una storia che viene narrata in tempi rapidi e precisi; con pochi personaggi ma indimenticabili.Farsi scoprire per me è un modo di uscire fuori…
Portici. Un bar addetto alle letture. Odore di paté e olive. La notte sopra i portici e sotto la notte il cielo.
Mi appoggio sul muro, nervosa. «Io sono qui. Non mi va di entrare, ti aspetto fuori». Invio.
Lo sguardo si blocca, osservo la pavimentazione sulla quale sono ferma. Diversa dalla restante,
progettata su lastre di marmo scagliate alla veneziana, questa invece è di pietra antica e scavata da solchi. Chissà da quanto sta qui.
Sigaretta. Alzo gli occhi. Cercare di riconoscerti tra la gente. Mi sembra impossibile che io sia qui,che ti abbia scritto. Forse di questo abbiamo bisogno. Ogni desiderio ha come unità di misura l’assurdo. Quando l’unità di misura conquista l’oggetto, quando il mezzo si fa fine, il desiderio svanisce. Non bisognerebbe mai superare certe soglie.
Un gruppo di ragazze, un uomo nel mezzo. Capelli raccolti in una coda, non ti accorgi di me. Hai lineamenti marcati, occhi infossati e immobili. Ti guardo e ti scruto, indovino il tuo volto e lo sovrappongo all’ideale. Mi vedi, mi osservi.
Dimenticare, i tuoi occhi, solo per un istante. Avrei voluto. Se è vero che per ogni agire ci vuole oblio, i tuoi occhi non fecero nulla, come le pupille vetrificate dei morti si riferivano con sguardo rovesciato all’assenza dinnanzi a loro, e mi concessero l’inutile lusso di mancare l’oblio. Cos’ero senza? Una vita passata a fuggire dalla rassegnazione, passata ad usare la mia storia come mezzo contro la rassegnazione.
Poi furono i solchi. L’istante dopo che corrompe il precedente. Rimozione. Presente. Sono di nuovo qui. Mi avvicino.
«Ehi».
«Ciao! Tu devi essere Ilaria». «E tu Martino».
Rompi il ghiaccio.
«Non sono mai stata in questo posto. Ci vieni spesso?».
«Alle volte, sì, il Modo è un locale carino. Devo pur sforzarmi di essere civile». Sorride
cinicamente.
«Ho portato del vino… ti prego, camminiamo» gli faccio «Muoio di freddo».
«Certo, nessun problema. E dunque… noi ci conosciamo tramite… Lo…».
«Lorenzo». – rispondo esaltata – «Lui… che poi è mio fratello».
«Giusto, tuo fratello. Lo sai come ci siamo conosciuti?».
«Sì». – sorrido – «Sul treno. Parecchi anni fa ormai. Avete entrambi sbagliato coincidenza e vi siete
ritrovati sull’ultimo diretto per Roma. Senza poter tornare. Avete passato la notte vagando… non l’ho mai visto parlarmi con quell’entusiasmo di un incontro. Mi colpì molto. Gli hai dato dell’emmeddì… mio fratello non hai mai preso niente».
Sorride di gusto.
«Era pieno inverno, dovevamo pur scaldarci in qualche modo… un periodo particolare quello, con i miei amici sperimentavamo molto, avevo sempre appresso qualcosa».
«Martino, eri sul treno in pigiama, ti fumavi uno spinello dal finestrino e stavi andando a fare un orgia a Viterbo». – rispondo.
Un ghigno divertito, un frammento di memoria d’oro, restituito dall’alterità. «Ah, può darsi».
Mi racconta trascorsi, nel mentre camminiamo a passo deciso. Vino sui denti, labbra sanguigne.
Comincio a non scandire bene le parole. L’etanolo scivola nei timpani, i toni si alzano. Inghiottiamo
le strade come solo le presenze sanno fare. Parusia. Ci ritroviamo a due passi da casa sua.
«Vieni, saliamo».
Primo piano. La casa è l’interno di una mina esplosa fin troppo tempo fa. La cucina non sembra essere adibita per l’uso. Troppe le ombre di oggetti e scarti di cibo in scatola a coprire e deformare le forme incassate e definite dei banconi, tavolo, mobili.
È un animale andato a male sto posto.
Si dirige verso la camera da letto.
Una grande libreria a muro. Una tastiera. Un divano in pelle, terra di Siena, piuttosto usurato. Nel complesso oggetti sparsi ovunque, un riepilogo meno organico della cucina. Solo un piumone lindo e bianco a risplendere nella stanza, illuminandola come una benedizione. Scorgo un soprammobile.
«…e quello?».
C’è un teschio non troppo grande sotto una teca di vetro.
«Ma è vero?».
«Sì. L’ho trovato in un campo qualche anno fa. Dovrebbe essere di un bambino».
Uno nasce per finire nella stanza di un coglione.
Non mi irrigidisco. Non so se dovrei ma non ci penso. Non faccio domande. Non mi spaventa niente di questo posto. Rimango immobile. Sorrido.
L’alcool brucia gli occhi, scalda le arterie e sciupa i polmoni.
Martino si siede, suona la tastiera. Autodidatta. Via con me di Paolo Conte e lui canta.
Un sorriso energico mi invade, sovrasta. Ondeggio coi fianchi e vorrei solo esplodere, ballare nella stanza, ma la mancanza di spazio mi impedisce. Prendo un cappotto dal divano, lo provo. Enorme e bellissimo. Lo unisco ad un cappello altrettanto enorme, mi inserisco nella composizione musicale ornando lo spazio, arruolandomi in un personaggio scelto al momento.
Martino si alza.
Io a seguire l’eco della musica. Dove sei? Dove sei? Dove sei? E non mi accorgo di te e sono altrove, persa nell’ondeggiare baluginante di un rimasuglio.
La tua ombra verso di me ad ammutolire il suono. Marmo caldo. Labbra. Mi sta baciando. Mi sta
baciando? Mi.
E non credo, non voglio, sono davvero qui? Schivo la sfera di realtà. Mi lascio scivolare nelle sfumature della pietra. Divengo curva.
Obliqua, la stanza si storce in un lento singulto di latte.
Letto. Tenta di spogliarmi.
Aspetta, ti prego, restiamo lì, aspetta.
«Sei famelico». – gli faccio.
«Non ti piace?».
Ma io non sono qui, Martino.
Dissociazione. È un tipo di consapevolezza che affiora a solchi, come possono essere due occhi, o la soglia tra un momento di essenza e l’altro, e dagli stessi solchi viene riassorbita l’attimo dopo.
Esiste un grado di percezione della realtà circostante che collima con tutti i luoghi in cui, in un dato momento, non siamo. Li denuncia e li rimpicciolisce.
È un principio d’inconscio, talvolta ho pensato.
Per questo indelebile.
Per questo sconosciuto.
Per questo non lo avrei dimenticato.
Avrei dovuto resistere. Avrei dovuto evadere da quella sensazione. Tu non mi chiedevi niente. Non ti sentivo chiedere di spogliarmi. Un desiderio mancato, una frattura di equilibri. Nulla di ciò che dicevo ascoltavi realmente, questo sentivo, e a tutto sapevi rispondermi. Le tue gesta intagliavano la confusione, l’irrigidimento, infine il silenzio. Sicché ad una certa potevo solo lasciarmi invasa. I tuoi occhi mutilavano l’assenza, conchiusi in un riverbero dove non mi era concesso vedere. Io che i sensi li liquefacevo, rivoli a scivolare lungo i gradini di un tempio consacrato al martirio.
Quella mattina me ne andai via mentre dormivi. Un biglietto. L’hai conservato. Non ho ragione di credere che questo voglia dire qualcosa. Me l’hai insegnato tu. Ed ora è così che mi sveglio al mattino, che rispondo sfrontata alle convenzioni di cui non mi importa più, che mi assecondo in ogni falso linguaggio del corpo perché evidentemente qualcosa anche la menzogna vorrà non significare.
Freud, L’Aldilà del principio di piacere. Assaggiare minime dosi di stimoli esterni, assorbirli.
Rigettarne degli altri, scegliere l’assenza. Ogni volta che scelgo l’assenza tutte le sagome antistanti
pronunciano il tuo nome.
L’autrice
Julia Gianferri è nata a Roma nel 1994. Cresce alle pendici di Montefiascone, accolta da una realtà semplice e genuina. Si laurea in Lettere Moderne all’Università di Bologna e prosegue gli studi in ambito cinematografico. Alcune sue poesie sono apparse in diverse testate online. Facendo sua la frase di Gustave Flaubert: “Scrivere è un modo di vivere” sognando che “Scrivere è pure un modo di leggere”. Si mette alla prova nel racconto breve, cercando uno spazio di narrazione più addensato e per questo più intimo.