Giacinta Marescotti al secolo Clarice, dagli sfarzi principeschi al convento

di Luciano Costantini

convento di san bernardino viterbo

Nobile e umile, diabolica e angelica, fatua e seria. Tutto e il suo contrario fu Giacinta Marescotti, figlia del conte Marcantonio e di Ottavia Orsini, contessa di Vignanello. Cinquantacinque anni vissuti prima nello sfarzo e tra le sirene di una mondanità rutilante di suoni e colori e poi nel silenzio e nell’ombra di un convento. Una esistenza, quella di Giacinta al secolo Clarice, che viaggia su binari separati – partono dalla nascita il 16 marzo del 1585 a Vignanello e terminano il 30 gennaio del 1640 a Viterbo – ma orientata sempre dall’amore: quello adolescenziale e terreno per Paolo Capizzucchi e quello eterno e divino per Dio. Fu proprio una delusione di cuore a segnare la svolta di Clarice che sognava un matrimonio con il bel Paolo che invece preferì la sorella di lei Ortensia. La reazione fu immediata per quanto drastica: chiudersi nel convento di San Bernardino a Viterbo dove già era ospite la sorella più grande, Ginevra. Clarice così diventò suor Giacinta del Terzo Ordine Francescano. Monaca nel nome, ma non nello spirito. “Una vita – scriverà più tardi descrivendo i primi anni della sua gioventù – di molte vanità et sciocchezze nella quale hero vissuta nella sacra religione”. All’interno del monastero viterbese, che sorge dirimpetto a piazza della Morte, la ancor giovane donna si fece allestire due stanze sfarzose con tavole perennemente imbandite di ogni ben di dio. Vestiva abiti in seta, intratteneva gli ospiti, era accudita da due novizie. Nel suo diario scriverà che passò quindici anni “intenta a se stessa e alla costruzione del proprio benessere materiale”. Una grande peccatrice, nei pensieri se non nelle opere e nelle azioni. In tante lettere, inviate ai familiari, confermerà la quasi maniacale attenzione per la propria persona. Finì per trasferire un pezzo dell’amato castello Ruspoli di Vignanello nell’antico convento di San Bernardino. Così andò per una quindicina di anni poi, nel 1615, una misteriosa malattia e la svolta spirituale. Via il lusso e la vacuità di quelle stanze e l’inizio di una esistenza dedicata interamente al prossimo, con l’aiuto di padre Antonio Bianchetti dell’Osservanza Francescana. Ora Suor Giacinta usava il cilicio, praticava mortificazioni corporali, si dedicava ad interminabili preghiere e pratiche spirituali. Ma soprattutto concentrava tutti gli sforzi al soccorso dei poveri, attraverso la creazione di due confraternite laiche: la prima, quella detta dei Sacconi (perché gli appartenenti erano vestiti con sacchi) si occupava della cura degli infermi; la seconda, degli Oblati di Maria, accudiva gli anziani. Suor Giacinta nel monastero viterbese restò fino alla morte come maestra delle novizie, senza peraltro mai diventare badessa. Non dimenticando mai la sua amata Vignanello e il castello natio all’interno del quale si era fatta ricavare una piccola per quanto modesta cappella dove si tratteneva per pregare durante le fugaci visite. Morì nel gennaio del 1640, dopo aver conquistato una notorietà che andava ben oltre gli angusti limiti della provincia. Prima del suo funerale la devozione popolare si spinse a limiti impensabili: il cadavere fu spogliato e rivestito tre volte della tonaca, utilizzata per trarne dei brandelli. Le furono asportate le dita delle mani per farne delle reliquie. Sepolta in una fossa comune, accanto al corpo della sorella, sotto l’altare maggiore del del convento, il suo corpo fu identificato, ricomposto e traslato in un angolo della chiesa decine di anni più tardi. Soltanto nel 1726 papa Benedetto XIII la dichiarò beata e nel 1807 papa Pio VII la proclamò santa. Patrona di Vignanello, ovviamente. Ma insieme a San Biagio.

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