Daniela Preziosi, viterbese doc: il Domani è adesso

di Donatella Agostini

Cronista politica, inviata parlamentare, soldata semplice: per definirsi, Daniela Preziosi utilizza termini a volte marziali, quasi che la sua professione sia assimilabile a una missione al fronte. Di battaglie, Daniela ne ha affrontate molte.

Negli anni dell’università, quando – appassionata e grintosa militante nei movimenti studenteschi – si è battuta per l’equità sociale e per un mondo più giusto. Quando ha iniziato la sua carriera di cronista politica, diventando una giovanissima conduttrice di Radio Due. Più tardi, approdata al Manifesto, ha contribuito a rifondarlo. «Ma nel mio mestiere non ti puoi fermare.

A settembre ho cominciato a lavorare a Domani, un quotidiano rivolto a una sinistra più larga, radical ma meno radicale rispetto al Manifesto. Ma al Manifesto restano gli amici più cari, fratelli e sorelle. Mi piace l’idea di portare a un lettorato più ampio le cose di cui ho sempre scritto, nel modo in cui le ho sempre scritte».

La ritroviamo spesso ospite nei programmi televisivi di approfondimento politico e di attualità di La 7 e RaiTre: osserva da decenni conflitti, scissioni e turbolenze della scena politica. Tanto da avere ben presenti le caratteristiche che ogni cronista politico deve avere. «Ostinata pazienza», sorride Daniela. «Voglia di studiare, capire, approfondire. E stare con i piedi piantati per strada. Mai perdere il polso della realtà. E, come diceva il grande giornalista polacco Kapuściński – che ho conosciuto – questo non è un mestiere per antipatici ed arroganti. Che sembra assurdo, perché poi i giornalisti sembrano sempre un po’ così».

Daniela Preziosi è la compagna di Massimo Bordin, il grande giornalista scomparso due anni fa, voce di Stampa e Regime, la rassegna stampa di Radio Radicale. Ma su questo mantiene un doloroso riserbo. È nata a Viterbo e vive a Roma. «A Roma ho avuto la fortuna di lavorare con maestri strepitosi. Ma io sono e resto viterbesissima».

«Sono figlia di un militare, un maresciallo marchigiano generoso e democratico, e di una mamma fiera, catalana di Alghero», racconta Daniela. «Come tante, la mia famiglia si è trasferita nell’allora nascente quartiere di Villanova, che negli anni Sessanta si andava popolando delle famiglie dei militari in servizio nelle caserme viterbesi. Persone che provenivano da ogni parte d’Italia, che non avevano legami di sangue nella città ma che per questo hanno saputo costruire legami di amicizia fortissimi».

A Villanova nasce la passione di Daniela per la radio. «A tredici anni cominciai a collaborare come dj a Radio Gluck, piccola radio locale che stava dentro i locali della parrocchia». Finito il liceo classico, Daniela si trasferisce a Roma per frequentare la facoltà di Lettere alla Sapienza.

«Avevo cominciato a scrivere recensioni musicali per un giornale dell’Azione Cattolica, Presenza e Dialogo. Se ci ripenso, era già un motto di vita. Quella testata aveva contatti con Radio Due, che era al tempo la rete democristiana. Mi dissero “prova a mandare una cassetta”. A prepararla mi aiutò il capo della radio». Daniela mette piede in Rai nemmeno ventenne: anfibi militari, un chiodo comprato a porta Portese e un basco in testa. «Ero così conciata perché ero del movimento della Pantera. Avevamo occupato l’università. Pensavo solo alle posse, ai fax, e al mio collettivo femminista. Ma trovai un dirigente molto curioso e aperto, Piersilverio Pozzi».

L’esperienza radiofonica in Rai dura sei anni; poi Daniela viene assunta da Liberazione, il giornale di Rifondazione Comunista, e dopo passa ad Avvenimenti, dove sperimenta il giornalismo di inchiesta. Ma è al Manifesto che Daniela diventa la professionista di oggi, una collaborazione proficua durata quattordici anni. «L’età di mio figlio. Ho iniziato che Giovanni aveva sei mesi. Tornavo a casa tardi e non gli ho mai cantato la ninna nanna, lo trovavo già a dormire. Una scelta durissima».

Giovanni oggi è un adolescente alle prese con la didattica digitale a distanza. «Gli studenti italiani hanno imparato per necessità cose anche dure, a rinunciare al contatto fisico o a pensarlo come qualcosa di pericoloso. Ma bisognerà trasformare il male in bene e, se riusciamo a coglierne l’intensità, questo sarà un momento di svolta, di storicizzazione delle nostre esistenze». Trasformare il male in bene, è ciò che ci auguriamo succeda anche sulla scena politica locale e nazionale.

«È la speranza che abbiamo in tanti. Non sono sicura che questo governo abbia gli strumenti per volgere in opportunità questo momento di crisi nera», afferma. «I soldi che speriamo arriveranno dall’Europa – che dobbiamo guadagnarci, presentando progetti seri – potrebbero servire per colmare il grande problema di questo Paese, le disuguaglianze. Non c’è paragone tra studenti del centro nord, che dispongono di tecnologie e di servizi, e quelli di altre parti di Italia che ancora non ce l’hanno.

La mia militanza politica e professionale è sempre stata quella di spiegare che avere una società più equa e con meno disuguaglianze è investire nel benessere di tutti». Nel nostro Paese una grande disuguaglianza rimane ancora quella che divide gli uomini e le donne nel mondo del lavoro.

«Quando ero ragazza ero talmente grintosa che non mi accorgevo di essere eventualmente discriminata perché donna. Forse non lo sono mai stata», continua. «Oggi la discriminazione è più subdola. Ma continua ad essere un salato pane quotidiano il fatto che quando c’è da lavorare si scelgano le donne e che quando c’è da dirigere si scelgano gli uomini». Malgrado il riconoscimento formale e contrattuale della parità di genere, la stragrande maggioranza delle cariche pubbliche sono ancora ricoperte da uomini.

«Quando ero giovane ero totalmente contraria alle quote rosa. Oggi mi rendo conto che se non c’è una legge che in qualche misura costringa i partiti a mettere un numero decente di donne in lista, e le amministrazioni di dirigenti donne, il meccanismo di solidarietà implicita e spesso inconscia che c’è tra uomini non si scardina. Non si può contare sulla spontaneità di questo meccanismo, se non in tempi biblici». Disuguaglianze di genere che si manifestano anche nell’imbarbarimento del linguaggio civile e politico. «Terribile. Penso al trattamento riservato alle donne nel nostro Parlamento.

L’imbarbarimento delle parole è speculare a quello delle relazioni umane. Ciascuno di noi deve responsabilmente adottare uno stile diverso e un linguaggio diverso. Io cerco di ricordarmi sempre che sto facendo anche questa battaglia, il restare umani, civili. Anche con le persone incivili: è faticoso ma va fatto. Soprattutto quando parliamo con i giovani. Non sono importanti le prediche, quanto l’esempio. Chi va in TV, chi ha delle responsabilità pubbliche dovrebbe sempre ricordarsi che ogni minima parola può diventare un detonatore, soprattutto nei luoghi in cui c’è disagio, malessere. Come in questo momento, in cui pandemia e crisi economica si stanno abbattendo su tutti coloro che non sono privilegiati dalle certezze».

Incertezza che percorre come un’onda sismica anche Viterbo, dove Daniela torna sempre dalla sua famiglia, dalle due sorelle Alessandra e Roberta, dagli amici cari. Una città ancora dolente per la perdita del suo amatissimo cittadino onorario, Gigi Proietti, che l’aveva vissuta durante le riprese del Maresciallo Rocca. «Quello sceneggiato ha avuto il merito di aver raccontato in giro per il mondo la bellezza di Viterbo, che spesso non è riconosciuta e valorizzata nemmeno a casa nostra.

È pur vero che nel nostro Paese ci sono tantissimi borghi, un sistema di piccole città di grandissimo pregio. Però Viterbo è unica, ha un intero quartiere medievale in piedi, cosa che grandi città medievali del nord Europa non hanno. Che non ha nessuno al mondo. L’atmosfera meravigliosa di passeggiare per San Pellegrino, un esterno che sembra un interno. È una cosa che porto dentro. Non sono credente ma sono devota a Santa Rosa, siamo tutti di un sentimento. E Villanova, quel quartiere in cui due preti straordinari, don Armando e Bruno Marini, costruirono una chiesa con le loro mani e soprattutto, seppero costruire una comunità salda in quella che allora chiamavamo periferia.

Una comunità che tuttora resiste. Viterbo fatica ad imporsi, anche dentro il sistema Regione Lazio, dove c’è Roma, che prende tutto. Quando sono nata l’università non c’era. Oggi è fondamentale. Non siamo più la città chiusa e conservatrice degli anni Ottanta, certo, ma la grande alleanza dei cittadini viterbesi, di qualsiasi parte politica, dovrebbe essere quella di curare la propria città che è fatta di bellezza, cultura. E persone».

 

COMMENTA SU FACEBOOK

CONDIVIDI