Banca d’Italia, nuova destinazione Palazzo della Cultura?

di Vincenzo Ceniti

La sua storia viene da lontano, dagli inizi del secolo scorso quando nel 1907 il Consiglio superiore della Banca d’Italia decise di aprire a Viterbo una filiale  che venne elevata a rango di agenzia di prima classe nel 1924, trasformata, poi, in succursale nel 1928 a circa un anno dalla istituzione della provincia di Viterbo.

All’inizio della sua attività lo sportello si trovava al piano terra della  Regia Prefettura, in piazza del Plebiscito per poi transitare in altre sedi fra cui il palazzo Ciofi-Venturini in via Principessa Margherita (oggi via Matteotti), dove ora c’è il fabbricato dell’Inps, ed infine nell’attuale edificio di via Marconi.

L’importanza del capoluogo della Tuscia, consacrata dal nuovo presidio provinciale, consigliava al più grande Istituto bancario italiano la realizzazione di una sede prestigiosa, addirittura un palazzo, in grado di gareggiare con altri già costruiti o in procinto di esserlo.

Per l’area si scelse quella sopra l’Urcionio di circa 2.000 mq di proprietà del Comune e ceduta gratuitamente.

La costruzione su progetto dell’ing. Rocco Giglio dell’Ufficio tecnico della Banca ebbe inizio il 2 dicembre 1939.  I lavori dopo una sospensione dovuta alla guerra, vennero ripresi nel settembre 1943 ed erano quasi ultimati  quando un bombardamento nel 1944 distrusse parte dell’angolo est dell’edificio. Le opere di ricostruzione proseguirono dopo la guerra, nel 1945, per essere completate il 31 agosto 1947, anno in cui iniziò gradualmente il trasferimento dal palazzo Ciofi-Venturini.

A causa dell’irregolarità del terreno non si poterono riproporre i moduli architettonici comuni alle consorelle banche di altre province, tanto cari al Ventennio. E’ un po’ quello che accadde molti secoli prima ai cistercensi di Pontigny che, agli inizi del Duecento,  per edificare l’abbazia di San Martino al Cimino dovettero far virtù delle irregolarità del terreno e  rinunciare agli schemi canonici delle abbazie coeve di altre regioni d’Europa.

Dunque l’edifico della Banca d’Italia di via Marconi dovette adattarsi alla conformazione del terreno, senza tuttavia rinunciare alle linee architettoniche del tempo, con due bei prospetti su piazza della Repubblica e su via Marconi il cui fronte, di un centinaio di metri, è diviso in tre parti con due massicce sporgenze laterali e il blocco centrale arretrato che ci riporta ai palazzi nobiliari del Quattro-Cinquecento. Nel centro Italia ce ne sono molti. Recentemente osservando il palazzo Cesi di Acquasparta (famoso per aver ospitato la prima riunione dell’Accademia dei Lincei), ho riscontrato evidenti analogie con l’impianto della Banca d’Italia viterbese.

Le eleganze tosco-laziali  dell’edificio di via Marconi, sottolineate da un tetto fortemente aggettante su beccatelli di legno e pietra, da un abbondante uso di mattoni di cotto e da un massiccio zoccolo di bugnato rustico, concedono ampi riguardi alle architetture medioevali e rinascimentali  di Viterbo, riconoscibili nelle  bifore delle finestre (che alludono alla fabbriche duecentesche) o negli  ampi portali dal volto classico, con archi a volte su coppie di colonne corinzie.

L’interno, e più precisamente l’area già destinata al pubblico e alle operazioni bancarie, è solenne con ampia scalata di accesso (nel versante destro del prospetto su via Marconi), soffitti alti, lucernari, finestre gigantesche, dovizia di marmi, arredi di legno massello (originali degli anni Quaranta), ampi corridoi che conducono alla direzione e agli uffici amministrativi.

Nei sotterranei, a tu per tu con l’Urcionio, si aprono alcune stanze blindate, i cosiddetti caveau, che pochi conoscono per evidenti motivi di sicurezza e segretezza (ma questi motivi sono ancora validi?). Nel piano superiore si svolge una serie di appartamenti che dovevano servire  alla “corte” di dirigenti, funzionari e impiegati, fino agli addetti alla custodia. Proprio come accadeva nei palazzi rinascimentali d’un tempo, dove il principe era attorniato da una nutrita  schiera di adepti.

Perché una costruzione così imponente in una città dopotutto minore rispetto alle “grandi” del tempo? Una vulgata popolare sosteneva che  la banca-fortezza di Viterbo avrebbe dovuto ospitare, in casi di “pericolo”, i valori custoditi nel Palazzo Koch di Roma dove si trova la sede centrale della Banca d’Italia. Ma non ci sono riscontri attendibili.

La domanda sul futuro dell’edificio è attuale e intrigante, dal momento che è in atto in ogni regione un forzato “dimagrimento” delle filiali.  Delle  cento iniziali ne sarebbero rimaste poco più della metà. Cosa ne sarà dell’imponente edificio di via Marconi?

I costi di gestione, acquisto, manutenzione ed altro sarebbero insostenibili a meno che non si opti per una robusta attività commerciale che nelle attuali condizioni sembra però improbabile.

Verrebbe da pensare ad un “Palazzo della Cultura” dove allestire, tra l’altro, una sala convegni e un  museo della città di Viterbo, come molti sostengono da tempo, declinato in tutte le molteplici componenti: storiche, architettoniche, artistiche, folcloriche, enogastronomiche, paesaggistiche ed altro,  con l’ausilio soprattutto della tecnologia più avanzata. E’ un sogno?

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